La fine della quarantena e l'effetto tana
Tanti non vogliono ancora uscire. Anche se bisognerà ricominciare a farsi la doccia tutti i giorni
Uscire? Non se ne parla. Fino alla fine dell’estate almeno, spiega a Libération una ragazza di trent’anni, incinta. Il marito lavora nelle pompe funebri – ecco il bello dei giornali, oltre che dei film e dei romanzi, fuori dai confini nazionali: esistono mestieri diversi dall’architetto, dallo scrittore, dall’organizzatore di eventi (i romanzieri e gli sceneggiatori prendano appunti). Lui torna a casa la sera, e lei lo disinfetta dalla testa ai piedi, chiavi e cellulare compreso.
Titolo dell’articolo, un paio di giorni fa: “Se déconfiner c’est pas si facile”. Gli intervistati svelano differenti gradi di ipocondria, dalla prudenziale (“sto a casa qualche giorno in più adesso per timore della recrudescenza”) alla filantropica (“sto a casa per non mettere a rischio gli altri”), al modello base (“devo andare a una riunione di lavoro, metterò lo scafandro”). In tutti si indovina un certo effetto tana: ora che mi sono abituato a vivere in trenta metri quadri – un avvocato di Parigi, dove le metrature abitative sono ridotte quanto tavolini dei bistrot, chissà come faranno adesso – ci vorranno buoni motivi per farmi uscire dal pigiama, dalla tuta, dalle pantofole pelose, regalo natalizio finalmente tornato utile.
Il Times 2 (la sezione principale si occupa di Boris Johnson e del suo ritrovato salutismo, contribuendo al già zeppo scaffale “Cosa mi ha insegnato la pandemia”) aggiunge un dettaglio. Bisognerà ricominciare a farsi la doccia tutti i giorni. La quarantena pare abbia avuto, tra le sue conseguenze, una discesa a picco dell’igiene personale. Se devi stare tra il divano e il frigorifero, e frequentare soltanto i familiari, certe abitudini facilmente si allentano. Si sa di gente che partecipava alle videoconferenze vestendosi da ufficio solo dalla vita in su. In questa ottica di risparmio – non è chiaro rispetto a cosa, a furia di girare per casa come zombie c’è il rischio di un divorzio, e può essere costoso – una pulizia sommaria poteva bastare.
Titolo, sulla copertina del supplemento un paio di giorni fa: “Is it Ok to stop washing?” La diminuzione – riscontrata dal colosso Unilever nelle vendite di prodotti per la pulizia personale – offre l’occasione per ribaltare il punto di vista e chiedersi se le nuove abitudini non siano per caso più sane delle precedenti. Tutto potevamo immaginare, in materia di “ne usciremo migliori”, con il suo antipatico coté anticonsumistico, tranne che un diffuso revisionismo in materia di doccia e shampoo. Eppure accade, e non in una rivistina alternativa che insegna a coltivare i pomodori sul balcone, clima permettendo.
Del pane in casa abbiamo già parlato, perplessi (e nel frattempo abbiamo collezionato altri lirici svolazzi sulla materia). L’editoriale intitolato “Sono anni che mi lavo poco, e sto benissimo” – lo firma Will Hodgkinson, critico musicale – era finora inedito. Il giovanotto racconta la sua routine: le mutande lasciate per terra la sera prima, la faccia lavata con l’acqua fredda, altri vestiti raccattati qua e là, raramente dal cassetto della roba pulita, e via a lavorare. Bagni dichiarati, uno alla settimana (come nella battuta che sembrava d’altri tempi: il gentiluomo si tuffava nella vasca ogni sabato, “ne avesse bisogno o no”).
Arrivano i consigli, per la decrescita igienica. Scendere dalla doccia giornaliera a una ogni due giorni, poi (allenandosi) a una ogni tre. Capelli lavati una volta a settimana, non di più. Ridurre la quantità di sapone, shampoo e balsamo. Oltre alle maniglie e ai carrelli del supermercato, tra un po’ bisognerà trovare un modo per disinfettare gli umani.
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