L'emergenza insegna: mantenere acceso il fuoco dell'altruismo fa bene

Antonio Pascale

Oltre a medici e infermieri, la cassiera, il tassista, il rider. E il pizzaiolo che con tre stranieri ha riconvertito il forno

Penso che l’indagine sulla natura umana, con tutte quelle domande a volte buffe a volte alte (ma dipende da come si prendono), possa essere riassunta e parafrasata da una massima del principe di Marsillac (la cui statua è in bella vista al museo del Louvre) François de La Rochefoucauld, principe, appunto, avventuriero, nonché saggista e aforista, così attento e preciso, spesso realista nell’osservazione dei nostri moti d’animo, emozioni e sentimenti. La massima è questa: la pietà è un sentimento dei propri mali in una persona estranea: è un’abile previsione delle sventure che ci possono capitare e che ci fa prestare soccorso agli altri per impegnarli a restituircelo in occasioni simili, cosicché i servizi che rendiamo a quelli che sono incappati in qualche sventura sono, propriamente parlando, benefici anticipati che facciamo a noi stessi.

 

Lo so, questa massima si oppone alle concezioni semplicistiche della pietà, dell’altruismo e del dono. Qui si sostiene che nel riconoscimento dei mali altrui c’è una previsione egoistica dei mali che mi possono capitare, nonché un obbligo per chi riceve il bene a restituirlo. Quindi altruismo ed egoismo non sono soggetti distinti e nemmeno si fanno la guerra, ma stanno sulla stessa medaglia, eppure possono, se ben usati, collaborare con profitto per il benessere collettivo e personale: la natura umana proprio perché è semplice permette molte e meravigliose variazioni su un unico tema. Ripenso a François de La Rochefoucauld soprattutto ora, entusiasta come sono, per la bella iniziativa del presidente Mattarella. Ha premiato (con l’onorificenza di Cavaliere al merito della Repubblica) 57 persone per il loro impegno durante l’emergenza coronavirus. Ci sono medici, soccorritori, insegnanti, addetti alle pulizie e rider, e tutti si sono particolarmente distinti nel servizio alla comunità. A parte i benemeriti medici e gli infermieri e ricercatori, scorrendo la lista troviamo persone come Rosa Maria Lucchetti, una cassiera all’Ipercoop Mirafiore di Pesaro, che ha lasciato una lettera agli operatori 118 e ha donato loro tre tessere prepagate di 250 euro. Oppure Alessandro Bellantoni, un tassista che ha portato all’ospedale Bambino Gesù di Roma per un controllo oncologico una bambina di tre anni, partendo da Vibo Valentia. 1.300 chilometri e gratis. Ancora, Concetta D’Isanto, che per mestiere fa l’addetta alle pulizie in un ospedale milanese. Che quando mai ci pensiamo, ma grazie a loro le strutture sanitarie sono andate avanti nel corso dell’emergenza. C’è anche Mahmoud Lufti Ghuniem, un rider (in Italia dal 2012) di quelli che abbiamo visto pedalare sotto l’acqua o il sole, per portarci il cibo, ebbene – lasciamo stare le condizioni lavorative a cui sono sottoposti – Mahmoud si è presentato alla Croce Rossa di Torino con uno stock di mille mascherine acquistate di tasca sua.

 

E c’è anche Francesco (detto Franco) Pepe, proprietario di una delle più famose pizzerie al mondo, pluripremiato (nonché pizzaiolo di antico e nobile lignaggio). L’ho chiamato, ed era ancora incredulo, contentissimo. Ma che è successo, gli ho chiesto. E’ successo, mi ha detto, che la chiusura ci ha colti impreparati, facevamo centinaia di coperti e all’improvviso, da un’ora all’altra, niente più. Ma sai, io sono cresciuto davanti al fuoco, tutta la vita passata a panificare e quindi regolare il fuoco è il mio mestiere, e ora questo fuoco si stava spegnendo. Ho pensato: non posso far spegnere il fuoco, perché non è soltanto un fuoco, sì, questa fiamma è anche una speranza, e dobbiamo mantenere viva e alta la speranza, sì, proprio qui e ora, per ripartire domani. E’ iniziata così, con questo pensiero. E poi avevo tanto roba da smaltire e pure qui, non potevo sprecare o buttare la roba, e allora mi sono detto: facciamo pane e biscotti e doniamoli. E’ stato bellissimo (e me l’ha detto con un tono da bambino felice) . Ora, Francesco Pepe con questa sua affermazione si inserisce in una corrente epica. Voglio dire, da secoli il mondo va avanti (e non sempre nel migliore dei modi) perché qualcuno tiene acceso il fuoco, sì anche per fare il pane, un punto fermo nel girotondo caotico. Ne possiamo fare esperienza ogni mattina. All’alba, non importano le condizioni meteo, qualcuno sforna il pane, perché, appunto, ha regolato il fuoco.

 

Tornando a noi, fatto sta che Pepe, pre Covid, aveva circa 43 dipendenti e con la chiusura sono rimasti a casa quasi tutti, tranne tre: che gli hanno fatto compagnia. Mahrous Rezk Said Boules, Valentyn Materynskyy e Nassif Moussa. Tra l’altro, anni prima, uno di loro, era arrivato dall’Egitto col classico barcone e stava in una casa famiglia. Pepe l’aveva prelevato e assunto (ora è riuscito a mettere su casa in Egitto).

 

Questo per sottolineare quello che di solito non vediamo durante le campagne elettorali. Ci concentriamo solo sugli arrivi, lanciamo improperi, maledizioni, gridiamo e non vediamo, appunto, quante persone vengono poi assorbite dal mercato (non solo in Italia, in tutta Europa) e collaborano con noi, per fare un buon prodotto nostrano, come la pizza, o più simbolicamente per tenere il fuoco acceso.

 

Così, i quattro, in formazione, hanno contattato un’associazione casertana che aveva chiesto aiuto, perché gli oltre settanta homeless che accudiva erano rimasti senza viveri. Hanno cominciato a fare biscotti, pane, pizze. Non solo, Pepe ha preso contatto anche con una dottoressa, Nina Tenga. Pensa – mi ha detto – l’ho conosciuta solo telefonicamente, e ora voglio condividere questa onorificenza con lei). Erano a corto di materiale sanitario e allora ho contattato i piccoli produttori, abbiamo fatto una raccolta fondi e siamo riusciti ad acquistare un ventilatore polmonare.

 

Ultima cosa – mi dice: il 18 maggio non ho voluto aprire, volevo aspettare un giorno importante: e ho scelto il 2 giugno e abbiamo accolto 500/600 persone: è stato bellissimo. Ora, certamente ci ne saranno storie simili in giro, ma quello che mi ha particolarmente colpito ed emozionato è stato proprio quell’aggettivo superlativo: bellissimo. Detto più volte, in maniera casuale, non ricercata, esprimeva una soddisfazione, un piacere. Sì, il piacere dell’altruismo. La massima di La Rochefoucauld citata in apertura forse è cinica, non so, eppure è realista non c’è una sfera che contiene valori che cadono su di noi, benedicendoci o maledicendoci, tutto nasce dal sottile e collaborativo rapporto egoismo/altruismo, previsione futura e azione immediata. Risultato? A volte è bellissimo essere altruisti e conviene anche. Sentire con empatia e trasporto il dolore o l’inquietudine altrui. Si prova piacere ad aiutare le persone, ed è proficuo fare qualcosa per la propria comunità.

 

Basta fare un semplice esperimento. Prendiamo le storie delle 57 persone, sì, valutiamo il rapporto egoismo/altruismo che tuttavia ha allargato il campo d’azione degli umani e paragoniamole alle storie di quelli che stanno uscendo ora nelle piazze, gridando che il virus non esiste e le solite cose. Giudichiamo i fatti, l’impegno, lo sguardo ampio, l’innovazione portata. Chi ha arricchito di più la comunità, chi l’ha innervata di empatia, chi ha messo gli altri in condizione di lavorare meglio, chi ha abbassato le dosi di cortisolo e il conseguente stress, predisponendo così gli animi alla pace e alla collaborazione, nonché offrendo (simbolicamente e no) pane?

 

Quella massima è un pilastro della natura umana, ci dice (realisticamente) come funzioniamo e ci suggerisce, in fondo, che è meglio essere altruisti che egoisti. Certo, in una società, alcuni egoistici possono vincere nel breve periodo (e quindi il baricentro si sposta verso il piacere dell’egoismo) , ma quello che è sicuro (funziona così in natura) è che i gruppi altruistici (qui inteso in senso lato, più aperti, curiosi, empatici) vincono sempre su quelli egoistici. Il problema è che essere egoisti ci viene più facile. L’altruismo invece è un muscolo più complesso, si allena. Come? Bisogna sentire la tensione tra l’individuo e la comunità, essere abbastanza lungimiranti da sapere, sentire, intuire che da soli ci si isola e si peggiora, che al contrario migliorando la comunità miglioriamo anche la nostra vita: è tutta una questione di soffiare insieme e a turno sul fuoco per fare il pane.

 

Che queste storie e questi riconoscimenti siano, dunque, un soffio utile, un allenamento efficace per i problemi naturali e specifici che dovremo ancora affrontare.