E ora fateci ballare. Parla Umberto Smaila
Perché ci vuole ottimismo per uscire dalla pandemia di Covid-19. "È da decenni e decenni che cercano di demonizzare lo stare in compagnia". Ora basta, abbiamo bisogno di musica
Il sole era basso, una nebbiolina invernale galleggiava sulla spiaggia del tutto indifferente dell’anticipo con il quale si era presentata. Un fine settembre così si era mai visto e i due uomini che passeggiavano sulla spiaggia erano già così ben intabarrati che sembravano appena scesi dalla montagna. Il più corpulento dei due si fermò un attimo con gli occhi persi verso una piccola baracca che sembrava un miracolo stesse ancora in piedi. L’altro gli chiese cosa avesse. “Vedi Tullio, qui una volta ci si divertiva. C’erano tavoli, sedie, risate. E in mezzo uno spazio enorme dove si ballava al suono di trombe e sax”. Tullio Kezich appuntò tutto su un taccuino. “Perché mi dici questo Federico?”. Fellini ci pensò su un po’, quasi a trovare il motivo della sua uscita. “Non è malinconia Tullio, è che tra un po’ moriremo di serietà. E di noia. Non capisco perché alla radio, sui giornali e in televisione ci sia tanto astio verso le persone che hanno solo la colpa di divertirsi”.
Era il 1991 quando l’intellettuale giuliano e il regista romagnolo fecero quella passeggiata sulla battigia della spiaggia di Rimini. Kezich la raccontò nella sua Trieste una dozzina di anni dopo. A quasi trent’anni di distanza e con una pandemia globale ancora in corso poco o nulla è cambiato. È bastata solo l’indiscrezione di una riapertura delle discoteche e, più in generale, dei locali dove si balla per scatenare un putiferio: riaprono le discoteche e non le scuole? ma in che paese viviamo?, hanno pensato, tuittato, detto in molti. “Eppure il problema è inverso. Le scuole potevano essere già aperte, come è successo in molti paesi europei. Prendersela però con la riapertura dei locali dove c’è musica è assurdo. Perché non è vero che sono inutili o futili, servono anche loro. Anzi servono più di quello che crediamo. Ragionare di pancia su queste cose è sbagliato, come è erroneo mettere in un unico calderone scuole, università e intrattenimento. Non ha senso tutto ciò”, dice al Foglio Umberto Smaila, che iniziò col cabaret dei Gatti di Vicolo Miracoli e, dopo cinema e televisione, è tornato su di un palco a cantare.
I locali dove si balla potevano riaprire il 15 giugno, o almeno questo dicevano le indiscrezioni a proposito delle scelte del governo. Il Dpcm annunciato ieri invece ha fatto slittare ancora tutto. Se ne riparla, forse, dal 14 luglio. “Eppure, anche con l’obbligo di stare a distanza di due metri mentre si balla, sarebbe stato importante riaprirle. Non parlo solo perché così facendo sarebbe tornata a lavorare una delle categorie più bistrattate dalle misure anti-pandemia, quella di cui faccio parte, quella di chi lavora con la musica e gli spettacoli”.
Per Umberto Smaila la riapertura dei locali dove si suona e si balla sarebbe stata soprattutto “un segnale di un ritorno se non alla normalità, quanto meno alla vita, alla gioia. Non possiamo avere paura di tornare a gioire. Le restrizioni e le nuove norme per evitare i contagi le persone le hanno capite e nella grandissima parte dei casi le hanno messe in pratica. Basta girare per le città per accorgersene. Si chiacchiera a distanza, ci si saluta in modo diverso. E i dati infatti sono buoni. La riapertura non ha provocato catastrofi. C’è bisogno di ottimismo e di fiducia. Non darla dopo tutto quello che abbiamo vissuto e soprattutto per come ci siamo comportati è sbagliato. Non si ballerà il liscio, il tango e la salsa. E vabbé, poco male, ce ne faremo una ragione. Io più degli altri, tanto non suono nulla di questo”.
Le nostre abitudini si sono dovute adeguare alla nuova realtà, la quotidianità ha dovuto subire un necessario cambiamento, sono mutati i temi di dibattito, gli argomenti delle nostre conversazioni, “ma questa è l’ovvia conseguenza dei tempi, non c’è nulla di nuovo, basta mettere a confronto cosa si scriveva prima e cosa dopo di un evento drammatico per rendersene conto”. A non essere cambiata invece è l’avversione e il fastidio di una gran parte delle persone per chi ha il piacere di divertirsi. “La cosiddetta movida, che poi non è altro che lo star bene con gli altri, la voglia di fare un minimo di festa, è una cosa che sta sulle balle ai politically correct, come li chiamano adesso, che poi altro non sono che i benpensanti di un tempo. È da decenni e decenni che cercano di demonizzare lo stare in compagnia in modo non silenzioso. E non è cambiato nulla. Hanno fatto casino per qualche persona che si beveva un bicchiere ai Navigli, per i ragazzi che sono ritornati a incontrarsi. Fosse per loro tutti ai domiciliari ancora. Poi però non fiatano quando la gente va giustamente a manifestare per la morte di George Floyd. Per magia al mutare della situazione muta pure il concetto di vicinanza. Eppure è la stessa cosa. È giusto manifestare ed è giusto stare in compagnia, con le dovute precauzioni, senza avere addosso l’etichetta di untore. Ieri sono stato a bermi una birra a Parco Sempione e come me erano in molti. Ma di assembramenti mica ce ne erano. Stavano lì seduti, ognuno con la sua birra, ben distanziati l’uno dall’altro. E muovendosi, girando, ci si accorge di uno scollamento tra la realtà e la narrazione che fanno di questa”.
L’evidenza di questo scollamento è emerso nella discussione pubblica degli ultimi giorni a proposito della possibilità di una seconda ondata. “C’è una bella differenza tra prevenzione, programmazione e terrorismo. Ci sarà una seconda ondata? Chissà. Anche se fosse vero e su questo c’è dibattito tra gli esperti e gli scienziati, non ditecelo, non fatecelo sapere. A cosa serve? Vuoi dire che tutti quelli che hanno sanificato, pulito e riaperto le loro attività dovranno richiudere? Uno nemmeno riapre. Quello a cui abbiamo assistito in queste settimane è una forma di terrorismo ideologico che fa malissimo, che fa paura, che soprattutto fa danni enormi all’economia. Perché se passa l’idea che siamo tutti fregati nessuno si rimette in moto, nessuno riapre, il paese si blocca. C’è una sottile, sadica voglia di farci star male. E questo è incompatibile con la situazione che abbiamo vissuto e stiamo vivendo”.
Per Smaila c’è “bisogno di ottimismo, di guardare al futuro senza inutili ansie”, il che non vuol dire “fregarsene allegramente di tutto”, oppure “non prepararsi alla possibilità di una seconda ondata”, ma evitare “di suicidarsi per eccesso di precauzione”. Insomma “la scienza è un mondo complicato che ha bisogno di tempo e studio per trovare le soluzioni ai problemi. Lasciamoli lavorare, di virologi in televisione non se ne può più, di farci travolgere da possibili tragedie future nemmeno". La necessità, almeno ora, è quella di “tornare a vivere e tornare a essere felici. In modo responsabile ovviamente. Ai grandi problemi del virus ci penserà la banda di consulenti ed esperti a cui ci siamo affidati. Sono tanti e in ogni settore. Trovino il modo di ridarci un futuro senza congelarci tutto il presente”. Perché quello di cui abbiamo bisogno “è che qualcuno si prenda l’impegno di darci una guida, di farci vedere la strada”, insomma di attori protagonisti, non di comparse, “di cui sappiamo quanti sono, ma chi sono e cosa fanno non lo sappiamo”.
D’altra parte non si può ripartire senza la convinzione che ci possa essere un futuro. “Questi mesi ci hanno permesso di riflettere sull’importanza del presente, dell’attimo in cui viviamo. È stato un ritorno al carpe diem. Ma per vivere gli attimi non possiamo perderci nella fobia del futuro. Serve attivarci, progettare, iniziare a intravedere il futuro”. E tornare a divertirsi. “Usciamo da mesi nei quali l’unica gioia che abbiamo avuto è stata quella di farsi le tagliatelle al ragù a casa e bersi una bottiglia di vino, almeno i consumi di vino domestico sono aumentati, o questo pare. Ora ci vuole una scossa”.
Smaila si è rimesso alla tastiera. “Ho approfittato di questo momento di disoccupazione per suonare. Ho suonato tantissimo. Ho ripreso canzoni che da un po’ non suonavo. È stata una riscoperta che influirà sui miei prossimi spettacoli. Prima di questa chiacchierata stavo risuonando The house of the rising sun degli Animals. Una canzone bellissima che tutti sanno ma che nessuno canta più. Ci penserò io”. E quando le tastiere usciranno di nuovo di casa la prima canzone sarà “September morn di Neil Diamond, una canzone romantica che parla d’amore, anzi del volersi bene. Spero solo che nessuno inizi a ballare il lento che sennò rimango fregato e non mi fanno più suonare. E poi riprenderò anche We are the world, perché in questo momento ci sta”. Sarà un inseguirsi di novità, perché “la routine è saltata e il tempo per ripensare a cosa mi piace e non mi piace fare c’è stato. Forse anche troppo”.
Il palco Umberto Smaila lo rincontrerà il 18 giugno, a Milano, in un ristorante “dove tutto era distanziato da sempre”. Riprenderà le sue “cene-spettacolo, questo è ciò che faccio ormai da quasi dieci anni” e sarà “una liberazione vedere qualcuno davanti a sentirti. Era ora”.
La musica non si spegnerà, anzi “ce ne vorrà di più, soprattutto in questa estate”. Vacanze che ci saranno, “che ci dovranno essere perché abbiamo bisogno di evasione, di allontanarci dai cattivi pensieri”. Evasioni italiane, perché “qualcuno all’estero non ci vuole, ma soprattutto nei primi mesi di lockdown abbiamo riscoperto quanto è bello il nostro paese. Le immagini delle città vuote ci hanno fatto capire cosa ci stavamo perdendo”. E se non tornerà tutto come prima, se ci sarà bisogno della distanza, “amen, ci abitueremo pure a questo. Eviteremo il tango e i lenti e non si offenderà nessuno”.