Viva la Casa-monica
Quelli che pensano che l’arredamento sia un atto criminale. Ma in Italia il cattivo gusto delle case è valore universale
Manco fosse un teorico del Bauhaus, ieri anche Gabriele Romagnoli s’è avventurato nella semiosfera abitativa di Pelè Casamonica e congiunti – e per estensione estetica dei mafiacapitalisti di Roma nord. Per trarne un nulladiché del buon gusto che irriterebbe pure Don Winslow, sparse banalità sull’“immaginario aspirazionale primitivo nella storia della criminalità”. Roba che abbiamo già mandato a memoria. Basta aver visto alla nausea servizi e fotoservizi di nera-glam impaginati come cataloghi del supermercato, o aver imparato alla noia la differenza tra lo stile Gomorra e quello Soprano’s. I cavalli dorati le ceramiche i rubinetti e i canapé, dove “ogni sovrapposizione è consentita, di ‘stili’, di oggetti”, eccetera. Già, chi gliela vieterà, la libertà di sovrapposizione, il dipartimento di estetica della Guardia di Finanza? Il cattivo gusto è un segno dell’italianità, non della criminalità. E’ un pensiero così bruttino che può aleggiare solo nella fantasia di chi crede che l’onestà sia la chiave compositiva di Le Corbusier. Ma soprattutto, perché immaginario primitivo? E da che pulpito poi, in una nazione che del gran design della filiera architettura-legnoarredo non è mai riuscita ad approfittare. E anzi ha spesso fatto del contrario, anche nei suoi ceti sociali evoluti, una cattiva mostra.
Per decenni sono state sbertucciate le ville tra “il corinzio, il pompeiano, l’angioino” (direbbe Gadda) del Cav. Ma non altrettanto s’è fatto per le case tra “l’egizio-sommaruga e il coppedè” (sempre lui) di manager finanzieri e confindustriali che s’affidano, per analfabetismo architettonico, agli studios che gliele fanno tutte uguali, però senza quella gioia da fiera di paese degli accampamenti sinti.
Perversione politicamente e culturalmente trasversale. Il casale in campagna con vigna acclusa à la D’Alema che fa tanto spillover dalle Frattocchie al rango di country gentleman, o certi attici stile impero sono un marchio di fabbrica del raggiunto laticlavio: dalla Puglia alla Padania. Cascare sulla casa-status symbol è un vizio italiano. E peggio fa, spesso, quella parte della nazione che più si sente nel mainstream acculturato (non diremo radical chic, perché è bipartisan), quella con irrefrenabile tendenza a inarcare il sopracciglio davanti all’altrui salotto. Ma che si barcamena, vista dai finestroni del loft, in una semiosfera di complementi d’arredo di conformista moralità.
Da decenni è tutto minimalismo asiatico, la lampada minacciosa come un obelisco non manca mai, tutto un nero su grigio e resine. Tutto uguale. A cena tocca accucciarsi su un tatami a mangiare ramen e bere monovitigni biodinamici molisani da far rimpiangere la dieta frazionata. Pensano sia bon ton. Il sopracciò etico di quelli che sfogliano le riviste è altrettanto insostenibile delle taverne coi pouf leopardati. E soprattutto non dà diritto a condannare il sovraccarico casamonicista che invece giganteggia verso il purissimo kitsch e persino il camp, magnificenze da Versace e D&G.
Ma ci vorrebbe un occhio postmoderno per coglierlo, e il postmoderno non è più moderno da un po’. O prendete gli hotel, nel paese del turismo luxury relais (in questi tempi grami si sono tutti buttati su Instagram). Si dividono senza un briciolo di trasgressione tra i futuristi, punitivi come monasteri shintoisti, e i classicheggianti irrimediabilmente Pompadour. Da quale mai scranno di raffinatezza nella scelta dei complementi dovrebbe discendere il diritto di giudicare gli altri criminali, solo perché amano l’ottone anche al cesso? La villa di Al Capone a Palm Island in stile colonial-spagnolesco, tanti per dire, è un bijou.
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