Aborto, islam politico, bioingegneria: c’erano delle ragioni. Ma per non avere nemmeno accettato il conflitto, ora tocca combattere guerre bigotte, anticorrettiste, inautentiche. E non stupitevi del flip-flop di Trump
Le guerre culturali avevano un senso. Quando dicevamo che le donne non sono responsabili degli aborti massificati e non devono essere punite, ma l’aborto è diventato un mostruoso campionario di senso comune, moralmente sordo al problema oggettivo che contiene, e quando aggiungevamo che non si può essere per il “diritto” di aborto e majorette della moratoria contro la pena di morte (Emma Bonino), dicevamo una cosa convergente con le istanze pro vita ma diversa dall’assolutismo pro life (che a sua volta spesso si contraddice con la pena di morte). Era una posizione estrema ma ragionata (per la quale abbiamo pagato un alto prezzo, anche quantificabile, che nessun liberal della mutua si sognerebbe mai di pagare). Quando dicevamo che l’islam politico genera terrorismo e solo una risposta di rigorosa controffensiva nel medio oriente e nel mondo può arginare e sconfiggere il basamento antioccidentale di questa ideologia politica suffragata da un credo religioso antiebraico e anticristiano, di nuovo era una posizione forte ma ragionata. Quando dicevamo che l’omofobia non ha alcuna giustificazione ma il matrimonio e l’omoparentalità sono, per quanto espressioni di amore autentico, un attacco alla famiglia tradizionale e una devastante ipoteca su una cellula di riproduzione dell’equilibrio sociale, ancora era una posizione discutibile, incompresa, intesa come retriva e conservatrice, e superata dai fatti, ma ragionata. Quando dicevamo che la bioingegneria non può essere eticamente neutrale, che non tutto quello che si può tecnicamente fare di un embrione è lecito, solita insurrezione a nome dell’amore e del diritto di aver figli e come li si desidera, e scatenamento della campagna per il relativismo cristiano (Carlo Maria Martini vs Benedetto XVI), tuttavia era una posizione ragionata, con delle basi, sensata come programma di conflitto culturale nel XXI secolo.
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