Così nel '65, in sei anni, bucammo il Monte Bianco
Quando non c'erano i "No Tunnel" a impedirci di collegare due paesi amici. La febbre dei minatori, lo champagne in galleria, quella stretta di mano tra Saragat e De Gaulle. I demoni della montagna e quelli del nostro populismo
“Il Monte Bianco era il nome di una montagna che ci separava. Da domani sarà il nome di un tunnel che ci riunisce”. Così ebbe a dire Valéry Giscard d'Estaing, all’epoca ministro delle Finanze e in seguito presidente della Repubblica francese. Era il 16 luglio del 1965. Mentre i berlinesi dell'est e dell'ovest si tumulavano dietro tonnellate di mattoni e di cemento armato, Italia e Francia inauguravano il traforo del Monte Bianco, che avrebbe permesso di viaggiare tra i due paesi in poco più di dieci minuti. Rimasto per molto tempo il traforo autostradale più lungo al mondo, ha rappresentato anche un simbolo dell'integrazione europea e di quella italo-francese, che in quel momento vivevano un periodo di crisi (erano i mesi della “politica della sedia vuota”).
Cinquantacinque anni fa, il presidente della Repubblica italiana Giuseppe Saragat e quello francese Charles de Gaulle si stringevano la mano sotto il traforo, che tre giorni dopo avrebbe aperto al traffico. Il cantiere, un lavoro tremendo, era iniziato nel 1959, a sei anni dalla firma della convenzione con cui Roma e Parigi si impegnavano a realizzare il tunnel. Dalle viscere della montagna vennero estratti un milione di metri cubi di roccia da operai infaticabili e in sovreccitata competizione. Giulio Cesare Meschini, che allora era direttore dei lavori dal lato italiano, intervistato da Repubblica, quella febbre l'ha spiegata così: “I francesi avevano fatto i furbi, erano in vantaggio di un paio di mesi e proclamarono che sarebbero arrivati prima. Ci salì il sangue agli occhi”. Gli ultimi metri vennero scavati tra maggio e luglio del 1962. La prima merce trasportata nel Monte Bianco fu champagne, ricorda Meschini: “Dal buco, i loro minatori passarono quattro bottiglie ai nostri”. Furono necessari altri tre anni per terminare i lavori interni, realizzare la carreggiata, gli impianti tecnici e attrezzare entrambe le piattaforme d’ingresso. Sei anni di fatica dura, quattro bottiglie, nessuna delle quali molotov. Non c'erano “No Tunnel”, allora, a bloccare i cantieri. E Torino e Lione, per paradosso, sembravano più vicine.
Eppure le polemiche ci furono, e molte. In Francia, dopo la firma della convenzione, si temeva che il traforo avrebbe avvantaggiato l’Italia mettendo in crisi l’economia del sud-est della Francia. Non andò così. Non ci ha rimesso Courmayeur né Chamonix. Né la regione Alvernia-Rodano-Alpi né la Valle d'Aosta hanno visto sparire i viaggiatori. Anzi: le due comunità legate dalla lingua hanno anche fondato il loro comune sviluppo economico sul turismo. Il traforo li ha aiutati. Fin dal primo Ottocento, gli abitanti del ducato di Aosta avevano chiesto a Casa Savoia di scavare una galleria che collegasse i due versanti delle Alpi. A dividerli, la cima più alta d'Europa. Quel monte “maledetto”, regno inaccessibile di rocce e ghiacci e di leggende tenebrose. Un luogo da dimenticare, addirittura da non segnare sulle mappe. Il Monte Bianco (ne scrive Enrico Camanni nel Grande libro del ghiaccio, appena pubblicato per Laterza) comparirà sulle carte geografiche solo nel Seicento e con nomi poco rassicuranti: il Mont Malet, il Mont Malay, la Montagne Maudite. Tra quelle lame di roccia e quei crepacci – si racconta nelle valli, in un'amalgama di folklore e religione – vivono le anime dannate, gli spiriti maligni, i “manteillon” che sotto il tabarro nascondono corpi senza gambe, costretti a intrecciare funi con la sabbia. Forse si dà corpo così ai terrori nascosti per secoli in quei deserti bianchi, in devastante avanzata a divorare pascoli nel corso della cosiddetta “piccola età glaciale”. Paure ancestrali passate di bocca in bocca e di generazione in generazione. Dagli elefanti di Annibale ai soldati di Napoleone.
Poi i lumi, le esplorazioni e l'alba dell'alpinismo. E Horace-Bénédict de Saussure, visionario naturalista svizzero che, raggiunta la vetta, esclama (o almeno, così dicono le sue memorie): “Verrà un giorno in cui si scaverà sotto il Monte Bianco una strada carrabile e queste due valli saranno unite”. E ancora, prima del boom – quando per decidere di fare un tunnel ci volevano sei anni e altri sei per scavarlo, nonostante tutto – ci sarà la rivoluzione industriale, con sogni più grandi e più grandi ambizioni. Dalla volontà di Cavour di collegare le due capitali del Regno di Savoia, Torino e Chambéry, nascerà il traforo ferroviario del Fréjus, primo asse sotterraneo di comunicazione attraverso le Alpi. Oggi è ancora quello l’unico – affollatissimo – collegamento ferroviario per scambiare merci tra la Francia e l’Italia.