La libertà è una cosa barbara
Dio, il Grande Fratello, i maschi madre, le sguattere, l'entusiasmo, la vitalità della bontà e come siamo finiti a cancellare tutto, anche il linguaggio poetico. Conversazione con Barbara Alberti
Barbara Alberti ha scritto di santi come fossero rockstar e di rockstar come fossero santi, di uomini e donne innamorati del sacro, di puttane, mariti, mogli, russi, libri degli altri, del piacere, dell’ebbrezza, del rapimento che è la vita, e della festa che mette in tutte le cose. Ha scritto una biografia di Sgarbi, “il professore di Ferrara con la forfora sulla giacca e le scarpe sformate, che è stato capace di leggere Musil durante le trasmissioni della Carrà”, inseguendolo per tre anni. Un’altra di Antoine de Saint- Exupéry. Trentasei libri, ventisei sceneggiature, migliaia di lettere d’amore sull’amore degli altri, per amore degli altri. Le telefono di pomeriggio, mi risponde dalla Puglia, si sente malissimo, sono disperata, lei ride, sa che troveremo una soluzione, si mette in cammino, dentro casa, fuori, intorno, nel vicinato, sembriamo Fantozzi e Pina quando cercano di sintonizzare l’antenna della tv. Si diverte, lo avverto in ogni “Sciandivasci, mi sente adesso?”, al quale non riesco mai a dire no, anche se è no, non vorrei sembrare irrispettosa del suo Nokia, so che ci è affezionata. Qualcuno a un certo punto interviene, le consiglia di farsi chiamare sul fisso, sono contenta, è entusiasta. Lei s’entusiasma per tutto, sempre.
“Non sapevo ci fosse un telefono fisso, sa, in questa casa sono ospite di mio marito”.
Ospite di suo marito? Magnifico. È una ricetta segreta per assicurarsi la pace? Un distanziamento coniugale?
“Non siamo più sposati da molti anni. Ci siamo ritrovati dopo. Avevamo avuto le nostre vite, lui cercava casa, si era fermato da me per un po’, si era trovato bene, m’ero trovata bene anche io, e non è più andato via. Ha funzionato. Siamo separati, viviamo uniti. E io ho tutte le gioie del matrimonio e nessuna delle sue noie”.
Quando è amore?
“Quando ci si scopre e ci si aiuta a diventare chi si è davvero. Almeno, così è stato per me. Non si può teorizzare”.
Teorizzare no, ma spiegare forse sì. Mi dica di sì. Tutte leggiamo la sua posta del cuore per trovare un senso a questa storia anche se questa storia un senso non ce l’ha.
“Per fortuna l’amore non si può spiegare, come molte altre cose. Il nostro dramma è che siamo convinti del contrario, pensiamo che indagandoci capiremo di più, e che se capiremo di più smetteremo di sbagliare. Lo psicologico ha vinto sul fenomenologico. Ormai c’è una diagnosi freudiana per tutto, se una ventenne s’innamora di un cinquantenne, chiunque si sente titolato a dirle che lo fa perché cerca suo padre. Che sciocchezza. Io sono sempre stata determinista, adesso lo sono ancora di più”.
Di Barbara Alberti cos’ha capito?
“Che morirò imperfetta”.
Mi dica una sua imperfezione.
“La cattiva memoria. Trovo che sia un peccato mortale, una orrenda forma di disattenzione”
E degli esseri umani cos’ha capito?
“Che vanno sempre contro loro stessi, e farebbero qualsiasi follia per essere infelici. Chi scrive a una posta del cuore sa benissimo cosa deve fare, non cerca un consiglio, non vuole risolvere niente, anche se sta soffrendo. Scrive perché cerca un’amica sconosciuta che per cinque minuti porti il suo peso, vuole una compagna di sofferenza e di dubbio”.
Pensavo che la sofferenza la scansassimo.
“Scansiamo la libertà. L’abbiamo in odio perché è una enorme responsabilità, ci costringe a scegliere, a firmare le nostre azioni, a prenderci cura della nostra vita, ad assumercene i fallimenti. Si è visto durante la quarantena: la voluttà nell’obbedire alle regole da una parte era segno di grande civiltà, dall’altra una preoccupante dimostrazione di come aneliamo a essere comandati da qualcuno che ci sistemi la vita. Ricorda “I fratelli Karamazov”? In un racconto di Ivan, “La leggenda del grande Inquisitore”, quando Gesù Cristo ritorna sulla terra, prima di venire mandato a morte, gli viene detto: sei un malfattore, un ingannatore, sei venuto a raccontare che la verità renderà gli uomini liberi, ma gli uomini non vogliono la libertà. Tu dagliela: vedrai poi che si guardano intorno terrorizzati cercando a chi possono inginocchiarsi”.
Lei si sente libera?
“Mai come adesso apprezzo le nostre libertà civili, e se temo che siano minacciate in modo subdolo e spesso invisibile, ma forte, spaventoso. Ho cercato di esercitare il libero arbitrio, ma non sempre ci sono riuscita. Morirò dispiaciuta per aver mancato alcuni dei doni che mi ha offerto. È una brutta bestia, il libero arbitrio”.
Si è mai autocensurata?
“Non credo. Sa, sono un’istintiva. Capita che io dica delle sciocchezze. Ma non tollero che mi si venga a dire come devo parlare, quali parole io debba poter usare e quali altre no.
Se ogni descrizione suscita una discriminazione, non potremo più scrivere romanzi, né poesie, e allora che senso avremo?
La prima volta che incontrai una donna che stimo immensamente, Genevieve Makaping, camerunense, lavorava in un albergo in Calabria. Mi disse che per lei la parola negro non era offensiva, anzi: a offenderla era la ripulitura del linguaggio. Mi colpì moltissimo, e mi fece capire che il paradosso di molte delle nostre recenti battaglie libertarie è che le conduciamo con mezzi dittatoriali. Lei si era innamorata, molto giovane, di un francese che aveva incontrato in Camerun, e aveva deciso di sposarlo. Lui era bianco, aveva gli occhi azzurri, i primi che vedeva in vita sua, tant’è che gli chiese se vedesse tutto azzurro. I suoi genitori erano ovviamente contrari, per lei avevano altri piani. Quindi lei era scappata con lui, si erano trasferiti in Francia, lui era diventato presto un alcolizzato ed era morto, lei si era trasferita in Calabria, dove era poi diventata antropologa e si era anche esposta contro la ’ndrangheta. Avevo più paura io del razzismo di lei, che lo aveva subito per una vita intera”.
Guia Soncini ha scritto che a salvarci da questo delirio in cui siamo potrebbe essere soltanto un nero che a un certo punto ci dica che stiamo esagerando. Speriamo. Fino ad allora, come facciamo a smetterla di pretenderci migliori?
“Non ci pretendiamo migliori: noi ci vogliamo perfetti e, badi bene, nella norma. Andiamo dallo psicoterapeuta che ci riconduce a una categoria che ha studiato per laurearsi, ripuliamo il linguaggio dalle parole che indicano una diversità, ci offendiamo se dicono a una donna che è bella e non scioperiamo tutte le volte che ne ammazzano una. Niente ha un valore concreto, è tutto formale. Così, crediamo che per tutti gli errori, anche i crimini, anche gli eccidi, basti scusarsi. E invece non basta, ciascuno è chiamato a compiere un atto riparatore, che non è detto valga il perdono: ci sono azioni imperdonabili”.
Come ci siamo finiti?
“La nostra povertà intellettuale è spaventosa. Difendiamo più il corpo del cervello, sarà che di cervello ce ne è rimasto molto poco, o che lo crediamo irrilevante, sempre subordinato al dato carnale, all’evidenza. E poi ci siamo incattiviti perché ci hanno tolto lo spirito, la trascendenza, che è in tutte le cose intorno a noi. Ci crediamo i padroni del mondo, l’altro è nostro servitore, se la relazione con lui non funziona, crediamo sempre che sia per colpa sua, non siamo disposti a pensare che ci viene reso quanto diamo, che far fluire la reciprocità è un nostro preciso dovere”.
Una volta al Grande Fratello Vip ha detto che la sola cosa che le riesce bene è riassettare.
“Non sono mai sicura di quello che faccio, tranne che delle mie pulizie. Quando sistemi una stanza, lo vedi subito se hai fatto bene o male. E far male è impossibile. Non c’è angolo di casa che non si possa trasformare in un piccolo paradiso. È un successo sicuro, l’unico sempre possibile, per questo è così rilassante”.
Io tutte le volte che devo stirare sto male per giorni, piango, chiedo aiuto, chiamo mia madre, e finisco sempre col bruciare qualcosa. Sempre. Per non parlare di quando devo cucinare.
“Ma anche io! Cosa crede, non sono mica una cameriera rifinita, sono una sguattera! Non sono neanche una grande cuoca, so cucinare un pasto gradevole con quello che c’è in dispensa. Ma quando sistemo una stanza, sento di aver fatto una piccola creazione, non so com’è, mi piace fare la serva. La serva proprio in senso antico di servire”.
Ha letto Marie Kondo sul magico potere del riordino? Ha scritto che dobbiamo eliminare i libri dalle nostre case.
“Non conosco questa signora, ma già la odio. È una perfetta conformista del nostro tempo in cui tutti vogliono insegnarci a fare tutto, pure a spolverare, pure ad allacciarci le scarpe”.
Riordinare casa la appaga, ma cosa la rende felice?
“Tantissime cose. Prima di tutto, la percezione di essere viva. Ci penso ogni giorno, è una gran fortuna. Poi, avere il senso dell’umorismo. La condizione umana è miserabile: veniamo al mondo per morire, si rende conto? Solo l’umorismo ce ne dà un’interpretazione divina. Se ridi sei già un bravo cittadino”.
Non ha paura di niente?
“Io temevo tanto la vecchiaia. Ho corteggiato l’idea del suicidio per non passare i trent’anni. Dai 24 ai 30 ho sentito l’invecchiamento con una potenza incredibile: cominciava a cambiarmi il viso e capivo che prima o poi sarei morta. Scrissi un libro, 'Delirio', che fu un trucco straordinario, ma capii soltanto dopo che aveva esorcizzato le mie paure. Ci raccontano che le donne invecchiano peggio: è una menzogna! Sfuma la sessualità ed è una grande liberazione, anche se ora devono farci scopare fino a cento anni, perché vogliono raccontarci che siamo eterni, invincibili, e invece siamo soltanto zimbelli del mercato. Il corpo cambia, non capisco perché devo drogarmi per sentire un desiderio che non ho. Non capisco neanche perché due anziani che fanno sesso debbano raccontarlo in giro, lo trovo così impudico. Non che mi piacciano i giovani che lo fanno. Ormai la gente non fa in tempo ad andare a letto che deve dirlo come fosse un’impresa”.
Il corpo è un fardello?
“Eccome! È una macchina che può prendere 5 milioni di malattie. È un grosso piacere ma anche un grosso ostacolo. Se avessi potuto scegliere, avrei voluto essere incorporea o, al massimo, essere come Valentina Crepax. Snella, scura, mora, cerbiatta”.
I maschi come sono messi?
“Provo grande tenerezza per loro. Sono sempre su un palcoscenico, giudicati per tutto. Dipendono ancora da quel loro arnese, che è un’arma di sconfitta”.
Arnese?
“Il cazzo. È quello che li rende così rigidi e affezionati al potere, e li espone continuamente. Per noi è diverso, il piacere è un nostro segreto, non veniamo giudicate su come facciamo l’amore. Gli uomini sì e questo è terribile. Anche loro dovrebbero emanciparsi, sbarazzarsi di questa riduzione così meschina. Io ho incontrato uomini fantastici, ad alcuni di loro devo moltissimo, soprattutto ai miei maschi madre, mio padre e mio marito, che si sono presi cura di me, rallegrandosi della mia esistenza, amandomi libera, da liberi. Mio marito è stato editor dei primi sette libri che ho scritto, con lui non è mai capitato quello che mi è successo con il mio ultimo romanzo, quando un giovane editor voleva aggiustare la lingua, a parer suo troppo sporca, imprecisa. Figlio mio, ci ho messo una vita a sgrammaticare l’italiano e adesso arrivi tu e vuoi cancellare tutto?”
E le ragazze?
“Straordinarie. Libere. Io sono una liberta, ho i segni delle catene sui polsi. Le giovani di oggi no, sono nate senza vincoli, e lo sanno”.
Ha amato molte donne?
“Ho amato più uomini che donne. Questi nostri anni portano a molti conformismi ma anche a qualche bel risultato di libertà: la mia preferita è il fluid, perché io alla mia identità sessuale non ho mai creduto e mi è bastato innamorarmi anche solo una volta di una donna per capire che è una convenzione. Trovare qualcuno da amare è la sola cosa che non ci fa temere la morte, risveglia tutte le nostre facoltà, persino il coraggio: è un prodigio, una rarità, una grazia. E se ci capita, siamo così scemi da chiedere a quel qualcuno il documento? Ma chissenefrega”.
Il futuro come sarà?
“Non voglio saperne nulla. Spero mi stupisca”.
Non dev’essere difficile stupire un’entusiasta come lei.
“Più che un’entusiasta, sono una credulona, perché sono stata fortunata e non ho dovuto affinare le mie difese. Ho vissuto in tempo di pace, ho seguito la mia vocazione e ho amato, riamata. Sono un pollo d’allevamento, per forza non ho difese: finora, m’è andata sempre bene”.
generazione ansiosa