saverio ma giusto
Che palle il fascismo!
Il museo del duce a Roma avrebbe quel ruolo pedagogico che è sempre mancato all’antifascismo
Nel film “Una Notte al Museo” del 2006, Ben Stiller interpreta il guardiano notturno del Museo di Storia naturale di New York alle prese con scheletri di dinosauri e statue di personaggi storici che prendono vita dopo il tramonto. Nell’eventuale remake italiano, Pierfrancesco Favino interpreterebbe il guardiano notturno del Museo del fascismo di Roma (da un’idea di tre consiglieri capitolini pentastellati) alle prese con la mummia di Benito Mussolini, che da mezzanotte alle 6 del mattino si anima e vorrebbe uscire in balcone. Come nell’originale, il guardiano diventa amico delle presenze nel museo: aiuta Mussolini e le sue squadracce di statue a riorganizzarsi e a marciare su Roma, fino alla formazione di un governo e da lì il regime. A quel punto Mussolini toglie diritti e libertà a Favino e lo manda a morire in guerra – finale un po’ diverso dall’originale ma vabbè, siamo pur sempre italiani e dobbiamo continuare a raccontarci di essere originali, oltre a mettere per forza i messaggi impegnati nei film.
Al di là del brutto remake italiano di quello che ormai è un classico del cinema americano contemporaneo, non vedo altri effetti collaterali dovuti all’apertura di un Museo del fascismo a Roma. Intanto, sarebbe un evento: non tanto il museo in sé, quanto il fatto che apra – a Roma non apre più niente da dieci anni, chiude tutto tranne le buche. E poi credo che un simile museo svolgerebbe quel ruolo pedagogico e formativo nel quale l’antifascismo militante, oserei dire pavloviano, ha miseramente fallito. Immaginatevi la sequenza. Via libera del Comune di Roma al progetto, con individuazione del sito dove costruire il museo nell’area dell’ex discarica di Malagrotta. La scelta mette tutti d’accordo: agli ambientalisti piace il recupero dell’area, ai militanti di sinistra l’ironia che il museo dedicato al Ventennio nasca su una montagna di rifiuti. Il cantiere dura anni – si ferma poi riparte poi si riferma – e congestiona il traffico sul Raccordo anulare e sulla Roma-Fiumicino; la gente intrappolata in auto comincia a imprecare e fioccano i “quando c’era Lui” – poi si ricordano che tutto ’sto casino è per fare un museo a Lui, e improvvisamente diventano catatonici, non sanno più chi sono e in molti scompaiono nel nulla senza lasciare più traccia. Dopo decenni, l’opera è finalmente completata – un edificio orrendo tipo il Santuario di Padre Pio a San Giovanni Rotondo – e viene inaugurata alla presenza delle istituzioni.
Da quel momento, complice anche un selfie della Ferragni in visita notturna con indosso stivali del Duce a infradito, il Museo del fascismo viene assaltato da pullman turistici provenienti da tutta Italia, da tutta Europa: nostalgici o semplici curiosi si ritrovano in fila sotto al sole tipo Musei vaticani, per poi pagare un biglietto costosissimo – pesano sul prezzo i 360 milioni in dollari americani di debiti di guerra – per vedere dentro a delle teche camicie nere (un po’ scolorite), bottiglie di olio di ricino (mezze vuote), manganelli (usati), divise, fez, un calcinaccio del balcone di Piazza Venezia, una spiga di grano proveniente dall’omonima battaglia, foto di Pomezia com’era prima (una palude) e com’è oggi (era meglio prima), quel che resta della maxi-tangente fra il fratello del Duce e alcuni gerarchi dietro alla convenzione tra lo stato italiano e la compagnia petrolifera americana Sinclair Oil, un plastico di CasaPound e tutta una serie di busti e bandiere che pare di stare a Predappio, ma non al mausoleo, al negozio di souvenir.
Sempre che qualcuno riesca a vederle, tutte queste cose: la folla si accalca attorno ai cimeli, indugiano per farsi i selfie (uno si siede su un tabellone ferroviario con scritto a tutti gli arrivi “In orario” e lo danneggia), dietro alle schiene sudate s’intravede ben poco, e quando finalmente uno riesce ad avvicinarsi a un’opera – le leggi razziali originali! – ecco che suona l’allarme dell’antifurto e un custode fa segno d’indietreggiare, che ci si è avvicinati troppo – e nemmeno ne valeva la pena: alla fine se vuoi vedere dell’antisemitismo o del razzismo è meglio la domenica allo stadio. Per non parlare della delusione che si prova nello scoprire che l’attrazione principale, “la Gioconda del Museo del fascismo”, lo scheletro originale di un Tyrannosaurus Dux, è in prestito a Tokyo per una mostra sulle dittature estinte. Alla fine, dal Museo del fascismo si uscirà come si esce sempre da un museo in Italia: stanchi e annoiati. Nemmeno a dire che ti compri un gadget (i calendari del Duce li trovi anche all’edicola sotto casa) e al bar del Museo le pizzette e i panini – ribattezzati “Le cose buone fatte dal fascismo” – non sono un granché. Ma soprattutto, il museo terrà lontane le nuove generazioni dalla tentazione di emulare simili derive: messo sotto teca, come tutto ciò che viene musealizzato, il fascismo non attirerà più nessun revisionismo o mitizzazione, ma solo un sonoro “che palle!”.
Politicamente corretto e panettone
L'immancabile ritorno di “Una poltrona per due” risveglia i wokisti indignati
Una luce dietro il rischio