Non è vero che questo nostro mondo è l’inferno. Non più, almeno. All’inferno si conversa tanto e bene, come suffragano la Divina Commedia e Luciano De Crescenzo che, esatto e micidiale, una volta ha detto: “Al niente preferisco l’inferno, se non altro per la conversazione”. E c’è effettivamente stato un tempo in cui chiacchieravamo tanto, di notte, di giorno, di faccia, di spalle, in salute, in malattia, in pace, in guerra, non sempre capendoci e per questo accapigliandoci, come da volere di dio. Ricorderete che quando noi, furbi ma non intelligenti, costruimmo la città e poi la torre di Babele e ci dicemmo di farla alta così che toccasse il cielo e decidemmo di darle un solo nome “per non disperderci su tutta la terra”, Dio scese dalle nostre parti e ci assegnò le lingue e così noi ci disperdemmo, e prendemmo ad abitare tutti i luoghi abitabili, e a chiamare le cose con nomi diversi, e a capirci sempre di meno, differenziandoci sempre di più, per ogni lingua un paese, per ogni paese una storia, per ogni storia un conflitto. Era bello, faticoso, sanguigno, a volte sanguinario. Il richiamo di Babele ci abita ancora, non è estinto, e a unificare il linguaggio ogni tanto qualcuno ci prova, l’altro dì i mongoli (quelli della Mongolia interna, una regione autonoma che è parte del territorio cinese) hanno cominciato a organizzare la loro corposa protesta contro Pechino, che vuole imporre il mandarino nelle scuole di modo da (così almeno racconta il governo cinese) armonizzare i curriculum scolastici e agevolare l’integrazione delle minoranze. Ai mongoli, però, d’unificarsi e armonizzarsi non importa, anzi, sanno bene che significherebbe cancellare o rimodellare la loro identità, la sola cosa di cui sono gelosi, e che sono disposti a pagare standosene nell’inferno di tutti, dove ciascun paese è l’inferno dell’altro, e il prossimo è l’inferno di ognuno, preferendo questo all’indistinta Babele, prodromo della globalizzazione dalla quale il Regnante di lassù ci ha salvati una volta e poi basta. E così i mongoli scendono in piazza e non mandano i bambini a scuola per salvare le loro parole, la loro lingua: loro stessi. E noi?
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