Non crediate nemmeno per un secondo che questa storia delle modelle non professioniste e/o non convenzionali per altezza e venustà sia una notizia o una novità di questi tempi che solo la presunzione ci fa immaginare ipocriti e corrotti e dunque da combattere con tutta la violenza verbale alla portata del nostro lessico, meglio se poverissimo. Mia madre non è disponibile per raccontarvi che cosa venne scritto di Twiggy quando il suo testone lunare spuntò dai servizi della Swinging London, ma io sono in giro da un tempo sufficientemente lungo per aver assistito all’ascesa di Kate Moss e all’ordalia che le allestirono i giornali di mezzo mondo quando la sua immagine fragile e nuda nei jeans di Calvin Klein comparve sulle fiancate dei bus. I social non erano ancora in azione e le invettive erano in apparenza più eleganti, ma andavano a segno come mai riuscirà, e per fortuna, l’hashtag #bruttafaccia. E’ stato digitato migliaia di volte sotto le immagini di Armine Harutyunyan, la giovanissima artista armena che per un breve momento, un anno fa, ha sfilato per Gucci e, grazie all’incredibile fake di una lista delle “cento modelle più sexy dell’anno” (una faccenda orwelliana tutta nazionale nella quale abbiamo dato il peggio come sempre facciamo sui temi risibili), si è trovata al centro di una campagna di odio alla quale ha risposto con una dignità che contrasta amaramente con la nostra ferocia: “Quando mi guardo nello specchio mi piace quello che vedo”. Kate Moss, per motivi familiari e come s’è lungamente visto in seguito, non aveva la stessa saldezza di spirito. La massacrarono: e che sembrava un elfo, e che aveva le gambe storte, e che aveva il viso a triangolo ed era piatta come una tavola, e che era patita, anzi che incoraggiava la pedofilia, l’anoressia, la bulimia, i cattivi risultati scolastici, la distrazione dei giovani dai veri valori, entrambi con la V maiuscola.
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