I figli del drago
La nobiltà delle arti marziali e l’orrendo pestaggio di Colleferro. Anche lo sport più duro nasce per fermare gli istinti di violenza
Zhu-ping Man imparò da Zhi-li Yi a uccidere i draghi. Per il suo apprendistato
pagò mille pezzi d’oro, che rappresentavano tutta la fortuna della sua famiglia.
Dopo tre anni, acquistò una piena padronanza della sua arte, ma non seppe cosa fare della sua abilità.
Zhuang-zi
Se i draghi non esistono, forse nemmeno esistono i sogni in cui compaiono né coloro che li fanno. O al contrario basta immaginarli perché i draghi ci siano. Sicuramente non c’erano draghi né sogni sulla piazza di Colleferro, la notte tra il 5 e il 6 settembre, mentre si consumava un incubo reale: il pestaggio a morte di un ventunenne troppo coraggioso. Il corpo ancora acerbo di Willy Monteiro Duarte, capitato in una rissa per difendere un amico, è stato massacrato da quattro o cinque cacciatori di facili vittorie. Due di loro, i fratelli Marco e Gabriele Bianchi, praticavano con assidua mediocrità l’Mma, le Mixed martial arts. Sognavano, stando all’autodichiarazione sulle bacheche Facebook e alle testimonianze di paese, lo sfoggio elementare di chi sogna il poco: muscolatura più pomposa che funzionale, orologio d’oro o più probabilmente dorato, la moto rombante, un’ovvia piscina, lo smoking, la progressiva addizione di tatuaggi finché il corpo sarà troppo esiguo per ospitarne ulteriori però potranno cambiare taglio o tinta di barba e capelli in funzione di Instagram, dove le tendenze dall’America a Colleferro passando per Roma, anziché impiegare come una volta qualche anno, arrivano subito subito.
Scrisse Jorge Luis Borges che “ignoriamo il senso del drago, come ignoriamo il senso dell’universo, ma c’è qualcosa nella sua immagine che si accorda con l’immaginazione degli uomini, e così il drago appare in epoche e a latitudini diverse”. E’ una spiegazione ai tre anni spesi dal Zhu-ping Man dell’apologo taoista per imparare a uccidere draghi e ai tre o trent’anni, talvolta di più, che milioni di praticanti marziali sacrificano in disparati e disperati puntini di mondo sentendosi, già per tale remota affinità, fratelli sotto un unico cielo. E? questo il “patentino” che accomuna le varie scuole e stili al di là di peculiari tradizioni, etnie e lingue, non già quello che propone d’istituire, dopo il dramma di Colleferro, lo scrittore Gianrico Carofiglio con intenti censitori un tempo vagheggiati per chiromanti e prostitute.
Chi studia come uccidere i draghi non ucciderebbe a pugni e calci un ragazzo: più s’esercita più intuisce che quasi mai saprà “cosa fare della sua abilità”. La bellezza delle arti marziali è in questo inapplicato e interminabile percorso verso la perfezione, che placa lo spirito, smorza la violenza vieppiù la riconosce e beneficia il corpo costantemente interrogato. Questo sa chi dedica migliaia di ore a sfoderare una katana, a raffinare il maneggio di una lancia, a ripetere centinaia di volte una sequenza da solo o con i compagni di palestra. Cosa fare di quest’abilità lo sa magari chi non ha scelto una disciplina classica orientale, ma uno sport da combattimento per cui dirige il suo scopo all’agonismo: l’emozione della gara, una cintura di campione, una borsa che ripaghi con “mille pezzi d’oro” (sovente molto meno) i sacrifici fatti giorno dopo giorno inseguendo quel drago inafferrabile. Poi può succedere che inattese circostanze della vita s’impongano sulla strada ed ecco che il cacciatore di draghi contro un drago si lancia. Anche se sembra sempre più forte di lui. La sfida è legittimata da un principio che i cinesi pronunciano Wude: l’etica marziale. Così da maestro a maestro, di scuola in scuola si tramandano racconti di cavalleresche azioni mosse da ingenua e necessaria generosità, oppure epopee su ring e tatami quando l’arte è derubricata a competizione e la sua etica è lealtà sportiva. E’ un podio che i bambini sognatori di draghi – esistano o meno – hanno almeno una volta immaginato di agguantare: la medaglia grazie a un colpo, magico perché preparato fino alla nausea. Come nel calcio un rigore tirato a palpebre socchiuse, perché il piede intuisce meglio degli occhi dove mandare il pallone. Quell’istante durerà quanto il bacio della memoria, che si fa sputo perenne se è invece un calcio stampato in volto a Willy soccombente ai tanti contro uno.
Chi sogna draghi si figura al contrario il campione che è l’uno contro tanti, persino l’inverosimile uno contro i troppi come Bruce Lee che liquida cattivi a guarnigioni nel Furore della Cina colpisce ancora e in Dalla Cina con furore. O come il maestro Ip Man della più recente saga cinematografica. E i troppi sono, per necessità, sempre cattivi.
Chiara Ferragni ha puntato l’indice su una “cultura fascista” per motivare la viltà di Colleferro, sgombrando il campo troppo vicino a lei di biografie prigioniere dei social assai più fatue che ideologiche. Non sfugge piuttosto, a chi conosce certe realtà di Roma e provincia, l’esistenza di una “zona grigia” tra legge e criminalità, dove i balordi recuperano crediti o fanno spaccio giusto per arrotondare i proventi di un lavoro più lecito.
Massimo Lugli è stato il principe dei cronisti di “nera” della Capitale. A lui sembra, quella dei fratelli Bianchi e dei loro amici, “una banda che marcava in modo militare il proprio territorio, ma non si può parlare di vera e propria delinquenza se non di bassa lega, anzi questa violenza testimonia l’assenza di un controllo criminale su Roma e dintorni: l’episodio di Colleferro non sarebbe potuto accadere in una zona controllata dalla mafia o dalla camorra”. L’opinione di Lugli riflette anche l’esperienza di una vita dedicata allo studio del Wing Tsun e del più morbido Tai Ki Kung: “Queste arti, compresa l’Mma, non sono scuole di violenza. Il violento non lo diventa perché va in palestra, dove semmai avviene l’opposto: tanti ragazzi problematici si redimono grazie alla disciplina. Ricordo personalmente due fratelli teppistelli che con il Wing Tsun sono totalmente cambiati, ma un buon insegnante è fondamentale. Il pugilato stesso tiene lontani dalla strada e dalla droga, anche perché il criminale non vuol faticare, è pigro per natura, scansa la durezza degli allenamenti e di una vita sana. E poi sono convinto che l’inclinazione criminale sia fomentata anche dalla frustrazione, mentre questi sport ti realizzano. Perciò un atleta non fa il picchiatore per strada: non deve dimostrare niente. Il maestro Masutatsu Oyama, fondatore del Karate Kyokushinkai, aveva ucciso i tori a mani nude ma quando prese uno schiaffo da un automobilista reagì scoppiando a ridere”. Quella della violenza è un’epica a perdere: “Da nerista ho scoperto che i criminali finiscono sempre male, o in galera o uccisi o immiseriti. Se si mostrasse come diventano…”, prosegue Lugli: “Ciccioni, flaccidi, piagnucolanti. Se si mettesse un po’ l’accento sulla fine della storia anche il presunto fascino cadrebbe a pezzi. Perciò nei miei romanzi fanno tutti una finaccia”. Quanto torna utile, invece, l’arte di macellare i draghi: “Quando scrivo m’impongo di farlo tutti i giorni per un certo tempo, seguendo la disciplina che m’hanno dato le arti marziali”.
(E c’è persino chi ha cominciato a scrivere leggendo il libro culto di Antonio Franchini, Quando vi ucciderete, maestro?, che disvela parallelismi e differenze tra letteratura e arti marziali).
Luigi Martone è un altro sognatore di draghi, un veterano del Kung Fu che insegna a Roma dal 1986: “Balordi? Certo che me ne sono capitati. Faccio solo un esempio: quando ero ancora un allievo il famigerato Johnny lo Zingaro frequentava la mia stessa palestra a Casal Bruciato. Per quelli come lui le arti marziali o la boxe servivano solo a sentirsi più forti in quel tipo di vita. Qualcuno invece lo recuperi perché gli fai comprendere le regole e il rispetto per gli altri: anche se ne salvi uno su cento vale sempre la pena provare, mentre ai bravi ragazzi le arti marziali infondono maggiore sicurezza per strada, anche per fronteggiare situazioni come quella a Colleferro cercando di limitare i danni”. Al maestro Martone preoccupa il messaggio che l’assassinio di Willy può trasmettere: “Era intervenuto per placare una rissa e ne è rimasto vittima. Ora molti penseranno che è sempre meglio farsi i fatti propri e fingere di non vedere se capitano in queste situazioni, lasciando campo libero a bestie il cui unico scopo è apparire: i soldi, i muscoli… Le arti marziali non c’entrano, se avessero praticato ginnastica artistica sarebbe stata la stessa cosa, avrebbero piegato pure quella alla violenza”.
E’ un altro decano del Kung Fu, Roberto Sforza: anche lui insegna dal 1986 e insegue il drago da una vita. “Sì, l’arte marziale consiste in uno studio un po’ assurdo, perché l’arte deve essere inutile. Gli sport da combattimento sono un’altra cosa, ma anche l’Mma è educativa perché impone di competere secondo le regole del gioco, anche se viste da fuori possono risultare meno comprensibili. Anche il fuorigioco nel calcio sembra assurdo: però lo rende più bello. In una rissa invece non c’è regola, nemmeno quella che non si picchia in quattro una persona… Le arti marziali impongono un’etica della virtù nel senso antico, mentre viviamo in un mondo in cui è sostituita dal criterio dell’utilità che suggerisce il contrario: ciò che è utile diventa giusto”. La parola perduta, secondo il maestro Sforza, è ‘responsabilità’: “Guarda i telegiornali: la gente dice cose senza preoccuparsi degli effetti che avranno le proprie parole perché non ne risponderà. Figuriamoci se i balordi si preoccupano delle loro azioni. Magari quelli di Colleferro non vedevano l’ora di trovarsi in una certa situazione senza metterne in conto gli sviluppi estremi”.
“Noi siamo la cura” è il motto postato da Danilo Capuzi dopo la notte di Colleferro: lui è un gigante buono con il record di 119 match alle spalle, campione italiano di Sanda nei pesi massimi per quindici anni consecutivi. Il maestro Capuzi ha somministrato da ventisette anni nella sua palestra, l’Otzuka Club al quartiere Aurelio, “la penicillina” dei valori a un totale di circa cinquemila praticanti distribuiti in 37 corsi fra sport da combattimento e arti marziali di ogni tipo (“anche quest’assortimento è un record”). “Io e i miei istruttori ci definiamo cavalieri della tolleranza e dell’integrazione. Per accedere alle lezioni, gli aspiranti iscritti sono tutti sottoposti a un colloquio iniziale, perciò la scrematura avviene a monte: i violenti, se vengono a bussare, nella nostra casa non entrano. Qui è proibito anche dire parolacce. Quel che è successo a Colleferro non può infangare un mondo intero di sacrifici e di rispetto per gli altri: se un poliziotto o un medico sbaglia, non si mettono sotto processo le forze dell’ordine o i camici bianchi. Conosco decine di campioni di Mma e pugilato: sono persone tranquille, educate, tra cui qualcuna che senza lo sport avrebbe preso una più brutta via”, aggiunge Danilo. “Tengo personalmente il corso per bambini da tre a sei anni, il più delicato: la prima cosa che impartisco è il rispetto verso genitori e anziani, la seconda è l’aiuto dei più deboli. Ho visitato centinaia di palestre e direi che in nessuna si fomenta la violenza”. Se i fratelli Bianchi sono balordi non è per l’Mma “né è colpa del body building, dei tatuaggi o di Facebook. E’ colpa dell’homo sapiens…”, di un’insondabile radice di malvagità che si può solo temperare con la “cura”. Con l’arte inutile, e utilissima, che insegna a uccidere il drago di dentro.
Il maestro Hung Ju Sing non visse in un passato mitico: morì nel 1944. Un giorno, camminando per Foshan, vide un gruppo di delinquenti che maltrattavano alcuni mendicanti. Non gli bastò malmenare i balordi: si arrovellò su una più duratura soluzione. Così insegnò ai poveri a combattere con la ciotola e le bacchette, trasformando in arma quegli utensili. E insegnò come difendersi, assecondando la menomazione, a monchi, ciechi, sordomuti e zoppi. Per precoce incanutimento, e per il suo feroce senso di giustizia, la storia delle arti marziali cantonesi tramanda la memoria del maestro come Bak Mo Ju, il “Diavolo dai capelli bianchi”, che con il bastone separava l’acqua di una cascata e bucava uno straccio penzolante.
La bravura dei Demoni con l’animo dei Santi.
Per questo paradossale accordo interiore l’ideogramma cinese Wu – “marziale” – scomposto nei suoi tratti di pennello rappresenta l’atto di fermare una lancia. La dissipazione del conflitto. Chi sogna i draghi lo sa o finirà per saperlo, anche se non ne ucciderà mai uno.
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