Quasi trent’anni fa, un film che finì sulla bocca di tutti cominciava con un ragazzetto nervoso e dinoccolato, con la faccia di destra e i vestiti di sinistra anarchica, che correva, preoccupato e divertito. Lo rincorrevano due tizi in abito da assicuratori, mentre la sua voce fuori campo ci elencava le cose, tutte uguali e più o meno orrende, che noialtri borghesi sceglievamo per darci un senso e un ordine. La vita, prima di tutto. E poi un lavoro, la carriera, il mutuo a interesse fisso, la prima casa, il fai da te, marcire in un ospizio. Finito l’elenco, diceva: “Perché dovrei fare una cosa così? Io ho scelto di non scegliere la vita, ho scelto qualcos’altro. Le ragioni? Non ci sono ragioni. Chi ha bisogno di ragioni quando ha l’eroina?”. Il film era “Trainspotting”, arrivava da un libro di Irvine Welsh, il ragazzetto era Ewan McGregor, Mark Renton. Era il 1996, un anno di una decade della quale abbiamo ripreso, rianimato, ritinteggiato e sacralizzato tutto, le felpe, il post punk, i Csi, le dott. Martens, i rapper bianchi, i cartoni animati, tranne quella cosa precisa che diceva Renton: al diavolo lo scopo, evviva la consunzione. Chi è cresciuto in quegli anni lo sa: ci si sprecava moltissimo. Lo si faceva per godere dello sfacelo, per sottrarsi alla felicità, che cominciava la sua trasfigurazione da diritto a dovere, e pure perché non c’era di meglio da fare che giocarsi tutto, rischiare, andare al massimo. Lo si faceva perché non aveva senso, e di cose senza senso si aveva una gran fame: perseguirle era la sola ribellione possibile.
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