Beati i guariti, perché di essi è il mondo dopo le 22, e la vita senza la mascherina, la libertà dall’angoscia. Di essi è il mondo di prima. Hanno sconfitto il virus, si sono immunizzati e anche se non è ancora stato stabilito con precisione per quanto tempo saranno coperti dagli anticorpi, qualche mese di impermeabilità al morbo se lo assicurano al cento per cento. No, va bene, meglio non esagerare con le certezze, ché qua di certo non è rimasto più niente, nemmeno le calcolatrici, peraltro vettori di contagio, con tutti quei tasti pigiati da chicchessia. L’immunità dei guariti è una questione aperta, ma aver contratto il Covid li preserva dal ricascarci almeno per qualche mese: è pacifico, al di là di ogni sospetto e al di qua di ogni tampone. Guarito è meglio che sano, più appealing innanzitutto per una questione di storytelling: vuoi mettere andare a cena con uno sano, che non ha che da dirti quante volte s’è lavato le mani e quante altre ha capito d’essere asintomatico, e invece uscire con un guarito che ti racconta quanta malasanità ha subìto, quanta trincea ha vissuto, com’è stato perdere l’olfatto e il gusto e poi riacquistarli e capire che niente nella vita conta più dei sapori e degli odori, e tu cretina che quando il fruttivendolo ti chiede se vuoi del prezzemolo lo guardi come se ti avesse chiesto come mai non hai figli. Tutte le porte si aprono ai guariti, e loro possono varcarle e uscirne senza bardarsi, possono sostituire i sani e gli ammalati, andare dove chiunque altro si contagerebbe, spingersi oltre il distanziamento sociale, sbattersene delle precauzioni. Possono vivere, vivere davvero.
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