SPAZIO OKKUPATO
Singoli nella folla
Nelle strade, aggrappati al conforto di essere spettatori, per giudicare gli altri ed evitare di giudicare noi stessi
C’è un famoso racconto di Edgar Allan Poe che descrive, mi sembra, l’incubo in cui siamo e la nostra difficoltà a concepirci come parte di sistemi complessi. Si intitola L’uomo della folla, è la storia di un uomo che dopo una malattia osserva da un bar la gente riversarsi in massa per le strade di Londra e, assalito da una febbre, si butta nella fiumana, camminando insieme alla folla indistinta fino a notte fonda, e di nuovo all’alba, fino a confondersi in essa e a smarrire ogni consapevolezza della propria singolarità. Il racconto mi è tornato in mente leggendo una risposta del virologo Massimo Galli a Repubblica che pare un apologo: “Ho appena incontrato un conoscente che stimo, e che mi ha detto: 'Sono stato in centro, c’era una quantità di gente incredibile, è possibile che non capiscano?'. 'Ma tu dov’eri?', gli ho domandato: 'Forse sei tu a non aver capito'. E’ rimasto senza parole”.
Mi sembra che una delle difficoltà più grandi nell’affrontare l’epidemia sia proprio dovuta alla resistenza che la maggior parte di noi oppone all’idea di fare parte, di pensarsi dentro un sistema dinamico, accettando il peso della propria responsabilità. I gesti individuali sono quasi sempre irrilevanti, di per sé. Smettono di esserlo nel momento in cui contribuiscono al comportamento della massa. E’ come se – a differenza dell’uomo di Poe – ci aggrappassimo con le unghie al conforto di essere sempre spettatori, sviluppando una specie di cecità che, anche in epoca di big data e algoritmi basati proprio sull’analisi dei comportamenti collettivi, ci permette di continuare a giudicare gli altri per evitare di giudicare noi stessi.
Questa cecità di comodo è la ragione per cui non mi convince del tutto l’argomento, apparentemente inoppugnabile, secondo cui non si può pretendere che le persone restino a casa se il governo apre i negozi e inventa il cash-back per sostenere i consumi, soprattutto a Natale. Il messaggio è evidentemente contraddittorio e non ci voleva un genio per prevedere che legare sconti e negozi avrebbe incentivato la voglia di uscire. E’ anche vero, però, che nessun incentivo governativo può sollevare dalla scelta di andare ad ammassarsi in centro il sabato prima di Natale, che è e rimane individuale. Sostenere il contrario, come hanno fatto anche alcuni sindaci e politici, significa insultare la dignità personale delle persone, considerarle gregge e ammettere implicitamente che non tutti siamo responsabili allo stesso modo. Significa ammettere – come fa chi dice “ho solo obbedito agli ordini” o “lo facevano tutti” – che fare parte di una massa possa azzerare la libertà di chi ne fa parte.
Il grande storico francese Jules Michelet scrisse che ogni epoca sogna la seguente. Forse L’uomo della folla di Poe è uno dei modi attraverso cui l’Ottocento sognò il Novecento e il suo bisogno di governare le folle. Lo fece con gli eserciti, le guerre mondiali, le fabbriche, le statistiche, la pubblicità, i mezzi di comunicazione di massa. Lo fece con le parate dei regimi e i giochi olimpici, come racconta Sigfried Kracauer in La massa come ornamento, il saggio del 1927 che descrive il modo nuovo con cui i grandi totalitarismi della prima metà del secolo utilizzarono le folle per mettere in scena la propria potenza. Quando, trent’anni fa, sono arrivati i computer, al sogno di imporre un ordine alla massa si è sostituita la possibilità di calcolarne i comportamenti grazie alla statistica e agli algoritmi, in modo da prevederli e ricavarne vantaggi. E al contempo ha dato a ognuno di noi l’illusione di essere unici, spettatori fuori dalla mischia autorizzati a giudicarla anche standoci in mezzo. L’epidemia ha mostrato che, mai come oggi, gli umani esistono in branco, ma preferiscono illudersi di essere liberi e isolati. La tensione morale tra uno e molti azzera la morale. Il fatto che in due giorni la app per ottenere lo sconto sia stata scaricata quanto Immuni in quattro mesi, dimostra soltanto che ci sono molte più persone che si sentono libere quando comprano qualcosa di quante ne esistano capaci di concepirsi come parte di un sistema interconnesso. Essere sempre connessi è diventata la nostra ideologia, ma la connessione è sempre vissuta come un atto libero, dall’uno ai molti, mai viceversa, non come una condizione comune di cui gli smartphone sono solo una delle manifestazioni. (Il virus è un’altra).
Questa resistenza al collettivo, questa illusione di libertà, è all’origine, credo, anche della facilità con cui si attribuiscono colpe agli altri per non assumersi il peso delle proprie. Della facilità con cui le contraddizioni dei politici diventano il velo per coprire le proprie. Come la maggior parte di noi, anche le democrazie digitali sembrano avere rinunciato – a parte Angela Merkel – a ogni ambizione di guida per cercare di seguire, ed eseguire, la volontà fluttuante della maggioranza, ordinando la chiusura quando prevale la paura e l’apertura non appena diventa maggioritario il sollievo. I governanti seguono, cioè, la regola aurea espressa in un dialogo del Circolo Pickwick di Charles Dickens, forse il più grande osservatore dei comportamenti delle masse della storia: “ ‘In queste occasioni è sempre meglio fare quello che fa la folla’. ‘Ma supponi che ci siano due folle’, suggerì Snodgrass. ‘Urla quello che sta urlando la folla più grossa’, replicò Pickwick”. Assomigliamo a quegli stormi di uccelli che compaiono in autunno e che sembrano nuvole a puntini quando disegnano le loro forme sul cielo e non si capisce come riescano a sfiorarsi senza scontrarsi mai. A differenza degli uccelli, però, non ne abbiamo coscienza o fingiamo di non averla, e così ci scontriamo. Crediamo di volare da soli
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