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Il magico potere del disordine

Annalena Benini

Il lockdown, il sacco nero e la voluttà di un regime autoritario che non ammette confusione. Ma se vietano assembramenti di pensieri e cose, allora scelgo i miei fratelli disgraziati, sotto al cavalcavia del caos

    Sono disordinata, e provo grande ammirazione e cupidigia per l’ordine degli altri che non saprò mai raggiungere. Vorrei che fosse mio, resto incantata davanti alle scrivanie e alle stanze ordinate, le guardo a lungo e con desiderio, per assorbire qualcosa di una magia che dev’essere una forza interiore, ma anche una collaborazione intensa e armoniosa fra soggetto e oggetti, che invece a me si ribellano. Poi torno a casa di corsa e metto tutto in ordine, con grande fracasso. Mentre riordino rumorosamente, con lunghi sospiri, con movimenti del corpo smodati rispetto ai libri che sto sistemando sullo scaffale e che mi disprezzano perché riconoscono la mia insicurezza, fingo di essere stata sempre ordinata, ma purtroppo ostacolata da una famiglia di boicottatori, irrispettosi del mio ordine sublime. Perché io questo ordine lo visualizzo, lo sogno, lo teorizzo, lo conosco, lo invoco, ma non lo so raggiungere. 

     
    Indico le carte di merendine dei miei figli e i loro libri di scuola pieni di orecchie, invece di guardare la luna del mio disordine stratificato, evoluto e quindi perfino camuffato, a volte, da ordine ciarlatano. 

     
    Ogni volta mi dico che posso farcela e ogni volta in qualche modo fallisco. 

      
    Ogni volta non trovo il libro che stavo cercando, il cappotto, la fotografia, le forbici, la multa da pagare, la ricetta del veterinario, e anche un pensiero che avevo appuntato dentro il cervello, ogni volta sento che ho di nuovo perso il controllo e che sono esclusa dal mondo degli ordinati, quelle persone a cui non può succedere niente di male perché non hanno, né fuori né dentro, assembramenti di cose in agguato, pronte a travolgerle. In uno spaventoso racconto di Stephen King, “1922”, dove un uomo (un agricoltore, che ha ucciso sua moglie e l’ha gettata in fondo al pozzo) viene perseguitato dai topi, che rosicchiano le pareti della casa, rosicchiano la sua coscienza, lo inseguono, lo mordono e alla fine lo divorano in una stanza d’albergo. Il disordine mi perseguita anche mentre metto in ordine, mi morde la mano mentre guardo ipnotizzata la serie tivù di Marie Kondo che insegna a persone molto più disordinate di me come riappropriarsi della vita  e dello spazio, il disordine sta in agguato mentre guardo queste persone, alla fine di ogni puntata, piangere e abbracciarsi per la felicità di avere adesso una stanza semi vuota e al profumo di menta (ogni volta c’è qualcuno che spruzza un profumo alla menta) in cui ricominciare a vivere nel modo giusto e sereno. Il disordine è il ratto disgustoso che mi insegue in ogni nuova casa, e che forse alla fine mi divorerà in una stanza d’albergo? Ma io non ho ucciso mia moglie, spiego alle tazze della cucina e ai cuscini del divano, io non ho fatto male a nessuno, ripeto alle gonne lanciate sulla sedia in camera da letto, così suscettibili se non le appendo per bene nell’armadio, così pronte a saltarmi addosso e a strangolarmi di notte mentre dormo. 

      
    Adesso, poi, che abbiamo già sperimentato un vero lockdown e che da molti mesi passiamo molto più tempo dentro casa, con il dovere di farlo, e insieme, il disordine non ha nemmeno bisogno di trasformarsi in un incubo notturno, in qualcosa che riguarda i miei topi interiori, perché è quotidianamente esposto, oppure contrastato, oggetto di discussioni, di richieste e di preghiere mai esaudite. Ti prego metti in ordine, è la frase che pronuncio più spesso. E il sacco nero della spazzatura è l’unica arma che possiedo e che sventolo periodicamente. Un’arma ma anche una consolazione: fatico a separarmi dagli oggetti, ma quando riempio un sacco di giocattoli rotti, quaderni strappati, soprammobili indecenti che ho trovato l’animo di buttare, il tostapane arrugginito di quando sono arrivata a Roma, compagno di tutte le cene a base di toast bruciati con sottiletta e prosciutto cotto (ancora adesso uno dei miei cibi preferiti), quando insomma riesco a dire addio senza voltarmi indietro, mi sento più forte, sento che anche a me, come a tutte le persone ordinate, non potrà capitare nulla di male. Sento che la mia rovina si allontana, di almeno un altro sacco nero. Ma so anche che sono sempre in bilico, che basta un passo per ritrovarmi sotto un cavalcavia con i disgraziati del disordine, circondata dai topi assassini. Noi disgraziati del disordine ci riconosciamo con uno sguardo: non importa quanto sia perfetto il tuo tavolo, quanto sia scintillante il bagno, mi basta un dettaglio, anche solo l’anta di un armadio che non si chiude, dei fogli sparsi, libri tenuti insieme in modo casuale, per capire che ho davanti un fratello che vorrei abbracciare, ma dal quale devo anche immediatamente fuggire.

      
    Poiché questa è una confessione, voglio confessare anche il piacere e la speranza che provo nel leggere, sottolineare, lasciare a metà e ammonticchiare tutti i manuali su come diventare ordinati, su come abbandonare la vita disgraziata. A casa, in ufficio, nella vita interiore, nei progetti per il futuro, dentro il computer e fra i miei pensieri. Naturalmente è tutto collegato, scrive Marie Kondo, l’esperta di ordine più famosa del mondo. Per un po’ ho pensato che lei potesse salvarmi: “La vita vera comincia dopo avere riordinato”, lei lo ripete continuamente, e conosce anche il disordine immateriale, mio compagno da sempre, e la voluttà dei sacchi della spazzatura. Marie Kondo mi ha conquistato molti anni fa, con una sola frase: la regola di base è gettare via tutto. Ho letto che da bambina metteva in ordine di nascosto anche le stanze dei suoi fratelli, riempiendo in segreto sacchi e sacchi della spazzatura, e non si dava pace finché ogni cosa era al suo posto, anche l’ultimo odioso cassetto del bagno, anche l’ultimo ripiano dell’armadio più nascosto. Ho pensato: quanta violenza, e ho deciso di aderire a questo metodo autoritario, che lei però pensa di addolcire con la gratitudine verso gli oggetti e le email e i documenti da eliminare. Nessuna pietà, ma con grazia. Consiglia infatti di salutare e ringraziare tutto ciò che stiamo per buttare, prima di infilarlo nel sacco nero, prima di librarci nell’aria di un’esistenza ordinata. Addio tostapane, grazie per tutti quei toast bruciacchiati, non ti dimenticherò mai, è ora però di salutarci e fare spazio ad altro: ho pronunciato davvero questa stupida frase e mi sono anche commossa, ero totalmente in balia del metodo giapponese e quindi ho fatto anche una specie di inchino. Ma non è così semplice, così lineare, e il tostapane vendicativo torna quasi ogni notte a tormentarmi sotto forma di incubo sui topi in cucina. Ma poiché Marie Kondo ha avuto tanto successo nel mettere in ordine le case degli altri, e ci si è anche recata di persona con grandi scatole bianche a simboleggiare la purezza della sua missione, e ha ordinato con gentilezza ai miei disgraziati fratelli di rovesciare sul letto prima tutti i vestiti, e poi tutte le carte, in un rito che credo abbia il suo significato nell’umiliazione e nella vergogna che provoca, e poiché le persone così umiliate quasi le chiedevano perdono in lacrime, e poi di nuovo piangevano di gioia, allora ha applicato il suo metodo totalitario anche al lavoro. “Lavorare con gioia grazie alla magia del riordino” è il suo ultimo libro (in Italia edito da Vallardi) scritto insieme a un esperto americano di organizzazione del lavoro. Naturalmente l’ho letto, sottolineato con furia e speranza e quasi subito abbandonato, come tutti gli altri, perché se non riuscirò mai a ripiegare le magliette e i golf e metterli nei cassetti in verticale, in piedi, come un plotone di esecuzione pronto a spararmi, così so che non riuscirò a farlo con i documenti, tutti in piedi sull’attenti nei loro contenitori, con il dito puntato contro di me, né con la mia vita, divisa in sottocategorie e comunque tutta in piedi contro di me. Così intima Marie Kondo, assicurandomi un’esistenza professionale piena di gioia e creatività, fatta di categorie, sottocategorie, email cancellate appena le ricevo, e pile di decisioni da prendere nell’immediato futuro, da dividere in decisioni a medio e alto rischio, da riassumere su un cartoncino, da valutare secondo un’ulteriore divisione in sottocategorie, e infine da prendere senza rimandare, per poi distruggere il cartoncino. Dov’è la gioia, mi chiedo, nell’eliminazione della procrastinazione e del tormento? Se non posso conservare una mail per più di ventiquattr’ore, se non posso nemmeno portarmi il telefono in bagno perché il telefono distruggerebbe la gioia pura di andare a fare una doccia, quali spazi di libertà e caos mi restano? Quali piaceri clandestini, se è tutto esposto in verticale? 

     
    Però mi sono impegnata seriamente e ho riordinato la scrivania secondo le regole di Marie Kondo, ricavandone molta crudele soddisfazione per un giorno: ho eliminato tutto quello a cui non sto lavorando, ho  fatto molto spazio e ho tenuto solo i libri indispensabili, ma ho capito che anche il mio concetto di indispensabilità è molto liberale e inclusivo, e che non potrò mai fare quello che mi chiede il metodo giapponese del riordino: abbandonare, ad esempio, i libri che non rileggerò più, o quelli che non ho ancora letto, e perfino quelli che ho riletto già un numero sufficiente di volte, e che quindi non possono darmi più gioia e energia. Mi si vieta di rileggerli e di conservarli, pena il soffocamento e l’aumento del livello di cortisolo nel sangue, perché se il libro ha già assolto la sua funzione, allora grazie e addio. Non ho mai sentito nulla di più crudele, tranne forse annegare dei gattini appena nati. 

     
    Non credo che potrò essere felice nel mondo freddo delle sottocategorie e del profumo alla menta, guardando sempre avanti e con un piccolo spazio concesso per i ricordi e le cianfrusaglie, anche mentale, ma sempre da sistemare in verticale. Con un piccolo spazio per i pensieri storti.
    E proprio adesso, che ci viene chiesto un ordine molto preciso anche nei contatti umani, ora che nessun assembramento è ammissibile neanche a Natale, e che anche gli oggetti vanno disinfettati, ma soprattutto le nostre anime e le nostre parole vanno disinfettate e sistemate in verticale, e gli incontri vanno ordinati secondo un ordine di indispensabilità, io vedo che il trionfo del magico potere del riordino si allontana per sempre dalla mia vita. Perché sento, pericolosamente, crescere un moto di ribellione. La ribellione dei vinti, quindi niente che abbia una possibilità di vittoria, la ribellione di chi ha già perso. Se non mi viene permesso di accumulare cose inutili, libri che ho amato e non amo più, multe del 2011 che mi ricordano quanto ero ingenua e piena di fiducia, decisioni mai prese e anche adesso rimandate, persone che mi hanno tradito ma che non voglio ancora mettere nel sacco nero della spazzatura, e anche quell’orribile vassoio a forma di pavone, o forse di tacchino, che fa parte del mio sguardo da molti anni, allora preferisco stare con i miei amici disgraziati, sotto il cavalcavia del disordine.

    • Annalena Benini
    • Annalena Benini, nata a Ferrara nel 1975, vive a Roma. Giornalista e scrittrice, è al Foglio dal 2001 e scrive di cultura, persone, storie. Dirige Review, la rivista mensile del Foglio. La rubrica di libri Lettere rubate esce ogni sabato, l’inserto Il Figlio esce ogni venerdì ed è anche un podcast. Ha scritto e condotto il programma tivù “Romanzo italiano” per Rai3. Il suo ultimo libro è “I racconti delle donne”. E’ sposata e ha due figli.