Johnny Depp prova a difendersi da un'accusa di diffamazione e finisce bandito da Netflix
Quella nei confronti dell'attore americano non è cancel culture: è fiction
In “Via col vento”, Rhett dice: “Mi spiace che la verità vi offenda”, quando tenta di fare ragionare un sudista interventista ricordandogli che il nord ha le armi mentre il sud ha il cotone, ma quello si irrita e lo accusa di parlare da traditore. “Mi spiace che la verità vi offenda” era la sola cosa da dire l’estate scorsa, quando la Hbo ha deciso che “Via col vento” andava distribuito con un alert che spiegasse al pubblico che se le domestiche erano nere e i padroni bianchi e Rossella era sgarbata e Prissy servile, era perché l’America di allora lo permetteva, che schifo. Tra prima e seconda ondata ridiscutevamo “Via col vento”, Montanelli, Colombo, chiedendoci se dovessimo cancellarli o contestualizzarli. A Covid tornato, abbiamo dimenticato questo processo, riportato approssimativamente alla cancel culture, che con la stessa approssimazione riteniamo essere un prodotto di questo tempo. Non lo è. Quel Rhett, in un film del ’39, lo dimostra.
La verità ci offende da sempre, sebbene non ci sia data. Noi disponiamo della realtà, che è un’interpretazione della verità e contiene quindi una manipolazione, una pressione congiunturale. Alla base della cancel culture c’è la consapevolezza che chiamiamo verità, una produzione culturale che va ciclicamente aggiornata e corretta. Il passaggio dalla correzione alla rimozione, che giustifica la dicitura cancel culture, non è figlio del nostro tempo. Nel finale di “Nuovo cinema paradiso” il protagonista rivede le scene tagliate dai film di quando era bimbo: baci spazzati via dal parroco, impiegato della censura di stato. Ora quel parroco è Twitter o siamo noi?
Dimettendosi dal New York Times, a luglio, Bari Weiss ha scritto: “Twitter has become its ultimate editor”. Twitter dirige il Nyt e pure Netflix, e così succede che, in America e Australia, i film con Johnny Depp vengono eliminati dalla piattaforma, dopo una sentenza di tribunale che aveva stabilito che il Sun, nel definire Depp “picchiatore di mogli”, aveva scritto qualcosa di “sostanzialmente vero”. Depp aveva denunciato il giornale per diffamazione, quest’estate s’è tenuto il processo, dappertutto s’è letto di un matrimonio orrendo e tempestoso, di lui che rincorreva l’ex moglie lanciandole addosso comodini e lei che gli mozzava le dita con i vetri. A novembre, l’Alta corte di Londra ha rigettato la denuncia di Depp, che ha annunciato di volere fare ricorso nella stessa lettera in cui ha raccontato di rispettare la decisione della Warner di escluderlo da “Animali fantastici”.
Un uomo si rivolge a un tribunale perché ritiene di essere stato diffamato, la diffamazione non viene riconosciuta e quella sentenza si trasforma nel verdetto di colpevolezza in un processo per violenza domestica che però non c’è mai stato. Non è cancel culture: è fiction. Lunedì, i giornali hanno liquidato la notizia della defenestrazione di Depp in poche righe, qualcuno ha parlato di pol. corr. e di come accettiamo solo versioni della realtà commisurate alla nostra capacità di accettarle. Spacey fu escluso da “House of cards” dopo una poderosa campagna contro di lui fatta di hashtag e Netflix agì di conseguenza. Stavolta Netflix arriva prima, stabilisce una verità di fiction come lo è la regina nera nell’età della reggenza inglese in “Bridgerton”, la serie di Shonda Rhimes: stabilisce che Depp è un violento e lo censura. Non lo fa per correggere o eliminare un dato di realtà irritante, ma per aderire alla sua fiction, dove per combattere la violenza sulle donne si ostracizza un attore che chiede giustizia. Ps. Quando il Wall Street Journal è stato circondato dagli inviperiti per avere consigliato a Jill Biden di farsi chiamare First Lady anziché dottoressa, un caporedattore ha scritto: “Se non siete d’accordo, inviate una lettera o un tweet, qui non smetteremo di pubblicare pezzi provocatori solo perché offendono la nuova amministrazione”. A cosa servono i giornali.