Domani torneremo all’inizio, il più grande ieri di tutti gli ieri. Come nelle rivoluzioni, in “2001: Odissea nello spazio”, nei rimpianti, nei propositi, nelle liste, in “Memorie dal sottosuolo”. Come quando quasi si muore. Oh let’s go back to the start, canta Chris Martin in “The Scientist”, la canzone che scrisse una notte di diciotto anni fa, a Liverpool: aveva finito il secondo disco dei Coldplay, “A Rush of Blood to the head”, ma avvertiva che qualcosa mancava, e allora s’era messo al pianoforte, e riascoltando “All Thing must pass”, il primo disco da solista di George Harrison dopo la fine dei Beatles, aveva provato a suonarne un pezzo, “Isn’t a pity”, con risultati modesti per non dire schifosi. Dalle registrazioni di quei tentativi, però, tirò fuori “The Scientist”, la canzone su come si fa il futuro andando a ritroso, una delle più belle dei Coldplay, degli anni Zero, del pop. Una canzone del 2002 che, senza saperlo, parlava del 2020, ne descriveva le abitudini: running in circles, coming up tails; heads on a science apart; pulling the puzzles apart. Tanto Martin quanto Harrison volevano indietro un grande amore perduto per cominciare a vivere. Entrambi parlavano di tornare a un intero che s’era diviso in parti infelici, destinate a mancarsi come le due metà in cui Zeus divise gli ermafroditi, o come le coppie di contrari che a un certo punto presero a separarsi dall’Apeiron, che secondo il filosofo Anassimadro era la materia del mondo, il suo inizio.
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