Il rebus palestre, tra riaperture incerte e nicchie perdute
Congelata un'economia da 10 miliardi, oltre 5 milioni di frequentatori si sono dovuti reinventare. Ma fra le prudenti indicazioni di ripartenza – il rischio epidemico correlato è un fattore – c'è chi è incappato nella discriminazione burocratica: "I nostri centri Ems sono più sicuri del parrucchiere, ma siamo ancora chiusi"
L’Homo runner si è nevroticamente diffuso durante la pandemia, con ogni probabilità si estinguerà al termine della pandemia – lasciando logico spazio a chi correva anche prima, o era sul punto di – e nel frattempo ingloba i più disparati sportivi e non. Palestre chiuse, adattarsi o svaccare. Una third way percorribile (oltre a chi è decollato via social) ci sarebbe da mesi ma è rimasta invischiata nella burocrazia. E ora che la questione riapertura è tornata all’ordine del giorno – l’ultimo documento del Cts potrebbe essere applicato dal governo nascente il prossimo 6 marzo –, si presenta concreto il rischio di uno scaglionamento inefficiente.
Dice il Cts, “in questa fase dell’epidemia si valuta con molta preoccupazione il riscontro potenziale di aggregazioni all’interno degli impianti sportivi, soprattutto in ambienti chiusi e confinati”. Le palestre all’indice, dunque, tra attrezzi in comune e respirazione pesante. “È possibile però offrire allenamenti individuali in spazi dedicati”, racconta per il Foglio Marco Campagnano, fondatore e direttore generale di Fit and Go. “Non una palestra”, sottolinea lui, “anche se il codice Ateco ci classifica e ci tratta come tale. La nostra unica salvezza è essere una srl, quindi i nostri dipendenti possono almeno contare sulla cassaintegrazione”. Il piano di attività sportiva anti-Covid e al chiuso – tecnicamente centri di allenamento Ems, elettro mio stimolazione –, è il seguente: una persona alla volta, su appuntamento, con personal trainer dedicato, strumenti o materiale individuale gestiti in un camerino proprio ed esercizi a corpo libero. A prova di Dpcm, finora solo in teoria.
“Chiaramente ci rivolgiamo a una fascia di prezzo leggermente più alta delle normali palestre”, spiega Campagnano, “ma è un concept che funziona per un ampio target: nella frenetica vita di oggi c’è necessità sociale e personale di stare in forma. Quindi proponiamo al cliente un programma per arrivare a risultati personalizzati in poco tempo. E diamo lavoro a 6-7 mila persone. Dal 2015 abbiamo aperto 84 boutique di allenamento in tutta Italia, anche se causa Covid ne perderemo almeno 5. Contando i nostri competitor, con cui abbiamo cercato di fare sistema in questi mesi, si tratta di 700 centri in totale e un volume d’affari da 20 milioni di euro. In gran parte mancato nell'ultimo anno”. Numeri importanti, ma l’universo palestre e spa – fonte Borsa Italiana – fa 10 miliardi. “Si capisce dunque che è difficile trovare un dialogo con le istituzioni per una nicchia del settore”, che tuttavia potrebbe trovare terreno fertile in tempo di pandemia. “Quasi un italiano su 10 va in palestra: noi oggi ci vogliamo rivolgere anche agli altri nove, con trattamenti specializzati in un ambiente sanitariamente sostenibile”.
Non a caso lo scorso novembre Fit and Go aveva lanciato anche una petizione: “La nostra attività è più sicura di quella dei centri estetici o dei parrucchieri. Avremmo dovuto non chiudere. Ma se l’Italia è il paese che ha rischiato di non andare alle Olimpiadi, mi rendo conto che il nostro problema sia di entità ben minore…” Quali saranno le prossime sfide? “Affrontare la crisi con disponibilità, trasmettendo sicurezza ai clienti e alla comunità scientifica”, continua il dg. “Questo vale per noi come per le palestre tradizionali, che pure presentano qualche fattore di rischio più difficilmente sanabile”, anche per criteri di economicità. “Non sarà facile, ma sono ottimista: la gente è stanca di stare a casa. Siamo pronti ad accompagnare ogni eventuale allentamento delle misure con professionalità e attenzione alle norme, dimostrandoci affidabili”. O ci resterà ancora l’Homo runner.
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