L'intervista della domenica
Vite vere compresa la sua
I fumetti, la Rai, gli amori di una vita, la pensione, gli scoiattoli canadesi, le filastrocche, l'ologramma di Sanremo, De André, Do Re Ciak Gulp, l'amicizia. Conversazione con Vincenzo Mollica
Vincenzo Mollica è stato il primo inviato a Sanremo in ologramma. Il primo giornalista Rai a mandare in onda, nel 1980, in un Tg1 delle 20, un servizio su Pippo – a Emilio Rossi, allora direttore, che gli chiese perché mai Pippo valesse un servizio in un notiziario della sera, lui, appena assunto, rispose: Pippo è un filosofo, mi faccia fare, proviamo; fu un successo. Il primo giornalista Rai a doppiare un cartone Disney, Chien Po, in "Mulan". Il primo a intervistare Fabrizio De Andrè dopo sette anni di silenzio, quando uscì “Le nuvole”, nel 1990. È diventato un personaggio di Topolino, Vincenzo Paperica, con sedici apparizioni in camicia rosa, jeans e becco giallo – il primo a ritrarlo con un becco fu Andrea Pazienza. È stato uno dei primi a definire il fumetto letteratura disegnata, quando nessuno parlava ancora di graphic novel. È stato con buona probabilità l’uomo che ha detto più volte “bellissimo” nella sua vita, cosa che gli è valsa accuse di buonismo, perbenismo, cerchiobottismo, accuse che, a un certo punto, per non faticare troppo, qualcuno ha riassunto in una sola parola: mollichismo. Poi vennero gli odiatori e il mollichismo diventò rivoluzionario, come ha scritto l’Huffington Post.
L’anno scorso, quando andò in pensione, il direttore del Tg1, l’ad della Rai e Fiorello gli chiesero di posticipare di un mese, in modo da seguire il festival di Sanremo. E lui disse di sì, grato, stupito, un po’ imbarazzato. Quest’intervista anche lo imbarazza un po’, come tutte. Mi dice: non sono chissà chi, cosa potrei dire? Mi dice: vorrei che fosse l’ultima. Sorrido. Lo ha detto anche ad altri, lo so, l’ho letto. Cede, e me ne rendo conto subito, per cortesia, che è il suo distintivo, insieme alla voce, la bontà, i maglioni, il do re ciak gulp.
Io dico che lei è un artista, oltre che un giornalista.
Sono solamente uno che ha sempre cercato di seguire le sue passioni, sia nel mestiere di giornalista che nella vita - non che ci tenga tanto a separare le due cose. Ho seguito quello che mi piaceva con naturalezza, senza mai pensare a chi stava facendo il mio lavoro e concentrandomi esclusivamente su come stavo facendo il mio. Ci ho messo passione, curiosità e fatica, il mio ego l’ho messo da parte com’era giusto fare. Scrivere e disegnare sono tutte cose che facevo prima che la vista mi lasciasse quasi del tutto e le facevo da artigiano. Adesso, ogni tanto, faccio qualche schizzo e lo metto su Instagram.
Mi piacciono molto anche le sue filastrocche su Instagram.
Poco fa pensavo a questa: l’intelligenza che si mette al servizio della prepotenza, raggiunge l’apice della demenza.
Com’è andato il primo anno da pensionato?
Ho capito di essere entrato in una fase della vita in cui si diventa sempre più simili a come si era da bambini. Avevo dimenticato com’ero da piccolo e adesso non solo l’ho ricordato, ma mi ci sono anche ritrovato. E poi ho riscoperto la misura del mio tempo, che è importante e che a volte il lavoro mi ha fatto stravolgere. Adesso sento di avere una possibilità in più che la vita mi regala, però ho tanto da capire, mi sto ancora esercitando, sono un apprendista pensionato.
A proposito della sua infanzia, lei è cresciuto in Canada. Che ricordi ha di quegli anni?
Nonna Noemi che dava da mangiare agli scoiattoli, prima di tutto. Lei aveva questo nome splendido, raro, che è rimasto solo suo, per me, finché non è arrivata la cantante Noemi. Ricordo la tv, che laggiù trasmetteva già 24 ore su 24, la guardavo a colazione, appuntamento fisso con Braccio di Ferro. Quando ci trasferimmo in Italia, dovetti abituarmi al fatto che le trasmissioni cominciavano alle cinque del pomeriggio. Ci misi un po’.
Com’è il bilancio del tempo perso, se ne ha fatto uno?
Non ho mai fatto vita mondana, non ho mai perso tempo in sciocchezze: partivo la mattina da casa per andare a lavorare e tornavo la sera; negli ultimi tempi mi accompagnava mia moglie perché io non potevo guidare ed ero contento, era un’occasione in più per stare con lei. I miei punti di riferimento sono sempre stati il lavoro e la famiglia e li ho conciliati senza troppa fatica. Una volta Fellini mi disse: è la curiosità che mi fa svegliare la mattina. Ecco, quella frase me la sono appiccicata in fronte, non l’ho mai dimenticata. Aver assecondato la mia curiosità mi dà la certezza di non aver mai sprecato il mio tempo.
Come ha conosciuto sua moglie?
Eravamo entrambi studenti alla Cattolica di Milano. La vidi, era bionda, aveva gli occhi chiari, mi parve bellissima. La invitai a uno spettacolo di Giorgio Gaber, uno dei primi del suo teatro canzone, e lei disse di sì. Andai a prenderla con la mia Vespa 50 arancione. Ci innamorammo subito. E gli spettacoli di Gaber li vedemmo tutti, insieme.
Ha detto di essersi occupato soltanto delle cose che le piacevano, questo spiegherebbe perché nelle sue rubriche non c’è mai stata una stroncatura.
Bisogna cercare le cose che rimangono, quelle che ti danno la sensazione che la vita vale la pena di essere vissuta. Vivere, in fondo, è questo: trovare le cose che fanno sentire che ha senso farlo.
Le è mai successo di appassionarsi a qualcosa che però non ha ritenuto adatto al grande pubblico? Quanto ha dovuto mediare tra le esigenze editoriali e il suo istinto?
Ho cercato sempre di capire. Non sono mai stato guidato dal mio io per far vedere quanto ero bravo, o cattivo, o intelligente. Ho fatto il cronista, non il giudice. Il mio compito era capire per raccontare: se non capivo, non raccontavo. Questo modo di essere e vivere per raccontare è una cosa che, se ci penso bene, mi pare abbia unificato tutte le mie passioni: i libri, i disegni, le mostre che ho fatto avevano sempre la finalità di raccontare una storia, un' emozione, qualcosa che per me aveva senso.
Chi sono stati i suoi maestri?
Tanti. Lello Bersani prima di tutti gli altri mi ha insegnato moltissimo, perché è stato il primo cronista di spettacolo della Rai e del Tg1 in particolare. Poi, quelli che mi hanno assunto: Emilio Rossi, Nuccio Fava. Sono cresciuto nel Tg grazie a loro.
Dove il giornalismo deve fare meglio o cambiare completamente?
Per essere fatto bene, il giornalismo non deve avere fretta. Non ci si deve far fregare dal desiderio di arrivare prima di un altro su una notizia. La credibilità di chi scrive è la cosa più importante, non la velocità: chi legge o ascolta deve fidarsi di te e quella fiducia te la devi conquistare giorno dopo giorno, ricordando che non è mai assodata. In questo, aver lavorato con Enzo Biagi a “Linea Diretta” è stato fondamentale: lui ogni giorno cercava storie che raccontava dopo averle studiate ed esaminate a lungo, le sottoponeva a una specie di test di verità, e se pure un fatto lo aveva il giorno prima ma non era sicuro, aspettava il giorno dopo. Mi piace poi il giornalismo che usa bene le parole, quello che scrive per essere letto e ascoltato, perché le parole scritte per essere lette o ascoltate hanno una sintassi diversa. Mi piacciono i giornalisti che usano il linguaggio con il rispetto che merita. Non dobbiamo dimenticare che siamo cronisti impressionisti e impressionabili e che quindi ci mettiamo poco a prendere vizi, parlare per frasi fatte, farci travolgere dagli usi comuni, dalle parole di moda. Ogni parola ha un suono, una caratura, un suo mistero, perché ogni parola cresce dentro di te ed è importante innaffiarla, curarla. Io ho cercato sempre di usarle al meglio che ho potuto. Se mi chiedessero che cosa ho fatto nella vita, risponderei senza esitazione che ho cercato di usare le parole meglio che ho potuto.
Però ha sempre avuto a sua disposizione anche le immagini.
A volte nei servizi mi capitava di avere un’immagine molto forte o potente e allora non mettevo nemmeno una parola: bisogna sempre trovare il momento in cui entrare, ma si deve anche essere pronti a non farlo. Le parole vanno usate solamente se sono necessarie e mai per riempire, solo per dire, perché devono essere decisive, devono cambiare la vita. Da come parli si capisce chi sei: se le tue parole ti assomigliano, allora stai facendo un buon lavoro e la gente lo percepisce.
Le parole, però, hanno sempre un margine di imprecisione.
Rispondo con un ricordo, se posso.
Ci mancherebbe.
Quando chiesi l’intervista a De André un anno prima dell’uscita di “Le Nuvole”, lui non parlava con i giornalisti da sette anni. Mi rispose di mandargli le domande, cosa che mi parve curiosa ma che, diligentemente, assecondai. Mi chiamò dopo un mese e mezzo e mi disse di andare da lui in Sardegna, dove rimasi per giorni, per un servizio di dieci minuti. Andammo al mare, in montagna, a casa sua, e quando cominciammo l’intervista, ricordo che mi raccomandò di fargli le domande nella stessa sequenza in cui gliele avevo mandate e, soprattutto, di usare le stesse parole che gli avevo scritto. Dopo pochi minuti, la macchina da presa si ruppe e mentre l’operatore la rimetteva a posto, lui mi ripetette tutto il tempo: fammi le stesse domande con le stesse parole. Aveva mandato a memoria tutto, domande e risposte, perché per lui quell' intervista era importante, voleva che rimanesse, mi raccontò di averla studiato a lungo, di aver scelto le parole con grande cura.
È diventato amico di molti artisti.
Sono stato fortunato perché tanti, generosamente, mi hanno dato la loro amicizia e così ho avuto il privilegio di avere a che fare con loro in maniera del tutto particolare. Non racconterò mai niente di quella parte della mia vita, anche se molti editori, da anni, mi chiedono un’autobiografia perché vorrebbero quelle storie: se non le tenessi per me, tradirei i miei amici. Sarebbe imperdonabile.
Cos’è l’amicizia?
Una volta chiesi a Hugo Pratt: come fai con Corto Maltese? E lui mi disse che iniziava sempre dagli occhi. Li disegnava, li guardava e poi diceva: che intenzioni hai? L’amicizia è quello che succede dopo quel momento, quando ci si riconosce e ci si chiede: che vuoi fare?
È vero che in Italia, sotto sotto, siamo tutti amici?
Non più. L’amicizia è sempre più rara e nessuno mi sembra se ne preoccupi. A Sanremo, quest’anno, mi è piaciuto il fatto che Amadeus e Fiorello sono stati bravi a far trasparire quanto bene si vogliono, quanto è bella, viva e divertente la loro amicizia e cosa due amici così affiatati possono riuscire a fare.
Ha mai detto qualche no?
Tanti a tante cose. Dico sempre no alla stupidità. Non perché io sia chissà quanto intelligente, però ho buonsenso.
Ne ha ricevuti?
Nessun artista mi ha mai rifiutato un’intervista. A parte Paulette Godard, che mi tenne al telefono molto tempo facendomi parlare di me e io le dissi che abitavo a Milano ed era appena nata mia figlia. In Rai avevo appena iniziato, l’incarico me lo aveva dato Enzo Biagi: dovevo fare in modo che lei desse la disponibilità a farsi intervistare da lui. Dopo una lunga chiacchierata, durante la quale pensai di parlare con la sua governante e non con lei, mi disse che non rilasciava interviste. Quando riferii a Biagi, lui mi disse che lo sapeva, ma aveva voluto vedere come me la cavavo e che, comunque, in questo mestiere si deve sempre provare puntando al massimo, tanto a scendere si fa sempre in tempo.
Anche Mina e Bob Dylan mi hanno detto di no, perché non fanno interviste. Ho comunque avuto il privilegio di conoscerli. Sono geni, persone davanti alle quali non c’è che da arrendersi. Come Benigni, Mastroianni, Sofia Loren, Fiorello. Tutti accomunati dall’avere un grande cuore.
Qualche momento di sconforto lo ha avuto?
Certamente, ma poi ha sempre vinto la tenacia. Quando iniziai al Tg, mi dissero che la mia voce non era adatta a leggere i servizi, che era “a chioccia”, cioè da gallina, quindi mi chiesero di prendere lezioni per migliorarla. Io mi rifiutai, spiegai che se avessi corretto una cosa per me così naturale, avrei fatto pessimi servizi in cui mi sarei concentrato sempre su come dicevo le cose anziché su cosa dicevo, e forzando la mia natura, sarei risultato inautentico. La mia voce, negli anni, è diventata il mio marchio di fabbrica.
E quando ha smesso di vedere?
Un medico ha definito il glaucoma un ladro silente di vista. Io ho quasi sempre visto da un occhio solo, sapevo che prima o poi avrei perso anche l’altro. Andrea Camilleri, che ha avuto lo stesso problema, mi è stato di grande aiuto nell’accettare la mia condizione. Una volta gli chiesi se esiste l’arte di non vedere, feci uno speciale dove mi raccontava che quando gli occhi smettono di funzionare, la memoria prende il sopravvento e ti aiuta. Da allora mi sforzai di imprimere tutto nella mia mente. Ora ricordo i colori, i disegni, i film con grande vividezza. E allora mi preoccupo ma non mi spavento, anche grazie ad Andrea. Ogni tanto disegno, gli articoli me li faccio leggere, uso tantissimo Siri.
Come mai chiuse Il Grifo? Era una rivista bellissima, oggi andrebbe a ruba tra gli appassionati.
Mauro Paganelli, l’editore, ogni tanto mi chiama e mi dice che periodicamente qualcuno lo contatta per avere vecchi numeri e completare la propria collezione. Stampammo quaranta numeri, ospitammo i migliori disegnatori italiani, incluso Pazienza, anche se non c’era già più. Uno degli articoli che sono più fiero di aver pubblicato lo scrisse Daniele Del Giudice, per me uno dei più grandi scrittori italiani contemporanei, quando uscì “Chi ha incastrato Roger Rabbit”. Scrisse che per la prima volta i cartoni animati avevano un’ombra.
Il futuro la spaventa?
Lo vivo giorno per giorno, del resto presente e futuro sono diventati lo stesso tempo, camminano con lo stesso ritmo. Sono spaventato come tutti gli italiani, ma vedo ancora il bicchiere mezzo pieno. Più che ottimista, mi sento speranzoso.
Come si fa a farsi amare così tanto?
Non lo so, non ho mai fatto niente per farmi amare. L’affetto arriva sempre come un regalo e a me ne è stato regalato tanto.
I guardiani del bene presunto