Fake news, piano
Social e bufale. L’opinione di un governo non deve essere il paradigma della verità
Al direttore - Mi pare che i social, spinti da preoccupazioni diffuse, stiano imboccando una china molto pericolosa sul tema delle cosiddette fake news. Esprimo solo una opinione personale ma ho letto con preoccupazione del sistema applicato da alcune piattaforme sul tema Covid con rimozione di milioni di post giudicati fuorvianti. Non entro nello specifico, ma, in termini generali, l’idea che sia possibile, ad una macchina o ad una persona, individuare con certezza quello che è vero e quello che è falso suscita in me fortissima perplessità. Che cresce in modo esponenziale se si fa diventare questo processo legittimante per interventi di limitazione della libertà di espressione. Comprendo bene la reazione istintiva che molti di noi hanno di fronte ad affermazioni di cui non si vede il fondamento o che comunque appaiono ai nostri occhi strumentali o forzate. Ma qui non ci stiamo interrogando su quanto una determinata teoria complottista sia fondata. O quanto una affermazione sia condivisibile. Stiamo solo chiedendoci se sia legittimo impedire che venga espressa. E sulla base di quale principio giuridico.
Le maggiori piattaforme hanno firmato una sorta di protocollo d’intesa per “combattere tutte assieme le falsità e la disinformazione sul virus, promuovendo contenuti autorevoli e condividendo aggiornamenti critici in coordinamento con i governi e le autorità sanitarie di tutto il mondo”. L’intenzione è apprezzabile ma l’obiettivo appare, avrebbe detto De Gaulle, un “vasto programma”. Troppo vasto. Lasciamo da parte il fatto che governi ed autorità sanitarie, anche limitandoci al solo mondo occidentale, non hanno certo sostenuto le stesse tesi nei mesi alle nostre spalle e che quindi non si capisce quali dei governi e delle autorità siano stati assunti come parametri di una corretta informazione e quali come fomentatori di disinformazione. Il principio però che l’opinione del governo, la versione ufficiale, diventi il paradigma della verità fa sobbalzare. Potremmo fare un elenco interminabile di versioni ufficiali smentite e superate dal coraggio di tante inchieste giornalistiche o dalla tenacia di straordinari movimenti di opinione. Da Sacco e Vanzetti a Valpreda, da Watergate a Ustica. O potremmo fare esempi di segno opposto. Il ministro Piccioni si dimise per una campagna sul figlio rivelatasi poi infondata. Un presidente della Repubblica, Leone, fu costretto a lasciare il Quirinale per una campagna martellante della cui infondatezza si è chiesto scusa con troppi anni di ritardo. Esempi per dire che il problema è più antico della rete.
Secondo un recente sondaggio 3 americani su 4 credono che la verità sull’assassinio di John Kennedy sia ben diversa dalla versione ufficiale. Non so se hanno ragione ma non mi sentirei di segnalare le loro affermazioni come “fuorvianti”. Rischio probabilmente, di apparire antico, ma credo che nessuna innovazione potrà darci la verità che rimane una ricerca, un obiettivo a cui tendere, non il prodotto di un algoritmo. I soli strumenti efficaci in cui credo sono da un lato la professionalità dei giornalisti e la loro attitudine a verificare fonti ed attendibilità e dall’altro l’educazione alla coscienza critica nei cittadini, in particolare nelle giovani generazioni. Non posso negare di considerare arbitrarie e pericolose forme di limitazione della libertà di espressione che non riguardino i casi espressamente previsti dalla legge. Se le norme non sono adeguate, il legislatore di ciascun paese può intervenire modificandole. Ma se non c’è un reato, se non c’è la pronuncia di un giudice, ogni intervento che limiti la libertà di espressione è privo di fondamento giuridico e dunque illegittimo. Ed infine, quasi come nota a margine, ho la sensazione che in questo dibattito si manifesti qualcosa di più profondo e di più complesso di quello che appare. È come se attraverso il contrasto alle fake news, si esprimessero una esigenza di riferimenti, un bisogno dì certezze, una domanda di verità che si muovono in profondità, in questo tempo, nella coscienza collettiva e che vanno ben oltre l’ambito dei social per abbracciare tutta intera la vita delle persone. Forse è di queste domande inespresse e probabilmente almeno in parte anche inconsapevoli, che dovremmo occuparci. Per rispondere a queste temo non bastino le norme e tantomeno volenterosi protocolli.
*Antonello Giacomelli
commissario dell'Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni