Steve McQueen "vola" su una motocicletta in una scena del film "La grande fuga" del 1963 (foto di United Artists / Getty Images) 

SAVERIO MA GIUSTO

Impossibile elisir

Saverio Raimondo

Volevamo una vita spericolata e invece  eccoci a pretendere l’immortalità di gregge

La famigerata vita normale, quella che da più di un anno è stata sospesa e alla quale tutti diciamo di voler tornare, significa bar, ristoranti, cinema e teatri aperti, libertà di assembramento e circolazione a ogni ora del giorno e delle notte, nessun obbligo di mascherina, e poi a un certo punto – chi per una ragione chi per un’altra, chi prima chi dopo, talvolta all’improvviso – morire. Morire è normale: può essere spiacevole, triste, talvolta persino tragico, ma sicuramente non è una devianza o un’aberrazione, o comunque non più delle infradito da uomo. Ricominciare a vivere significa ricominciare a considerare la morte non come uno scandalo inaccettabile (“ah signora mia, con tutti questi morti in giro dove andremo a finire!”) ma come un’eventualità possibile, se non probabile – come è sempre stato, del resto. 

 
Fino a poco tempo fa cantavamo a squarciagola di volere una vita spericolata, piena di guai, che se ne frega di tutto sì; e adesso ci facciamo spaventare da un paio di trombi, altro che Steve McQueen. Intendiamoci, sono per il principio di precauzione (sostengo da sempre che gli aerei non dovrebbero decollare così eviterebbero di precipitare); ma dovremmo decidere quali rischi siamo disposti a correre, altrimenti in linea precauzionale non dovremmo nemmeno più uscire di casa. Ops, ho sbagliato esempio. Quello che intendo è che la morte, la “reazione avversa” per antonomasia, è l’effetto collaterale o indesiderato di qualunque cosa, non solo di qualsiasi farmaco o vaccino, persino del profitterol; se non siamo minimamente disposti a rischiare la morte, se non siamo serenamente rassegnati ad accettare la morte come un’eventualità concreta nell’ordine delle cose, il problema siamo noi e non le cause del nostro decesso.


A che gioco stiamo giocando? Davvero l’utopia a cui la nostra società si sta immolando è quella di un mondo asettico e sicurissimo, dove nessuno ti tocca, nessuno si ammala, e addirittura nessuno tira più le cuoia? Siamo davvero disposti a rinunciare a tutto pur di continuare solo e soltanto a respirare, e ad avere un cuore che batta per riflesso involontario senza nessunissima altra ragione per farlo? Perché se la risposta è sì, allora qui il problema di AstraZeneca non è se il vaccino funzioni oppure no, se sia pericoloso oppure no; qui il problema è il vaccino in sé, che risolverà anche il problema del Covid, ma non ci garantisce la vita eterna. Qui tocca buttare tutto, non solo AstraZeneca ma anche Pfizer, Moderna, piano vaccinale, tocca fermare i nastri trasportatori di Johnson&Johnson; qui è tutto da rifare! Il coronavirus era solo un pretesto; il vero bersaglio qui è la morte! Viviamo in una società ben peggiore di quella consumistica, dove dopo esser nati, l’aver prodotto e l’aver consumato era ancora previsto il crepare; adesso invece il mondo che abitiamo sembra avere come unico imperativo la vita umana, nel senso biologico e meccanico del termine; quali siano poi le prospettive o se questa vita valga la pena di esser vissuta è un problema che nessuno vuole nemmeno più porsi, tantomeno affrontare concretamente. Questa non è una dittatura sanitaria (magari: qui c’è un grande bisogni di Tso, per tutti!); questo è uno stato confusionale. E adesso il popolo, dopo tanto rivendicare, chiede l’elisir di lunga vita. Non ci accontenteremo delle brioche; vogliamo l’immortalità di gregge.
 

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