Saverio ma giusto
Viale delle Vittime
Intitoliamo loro le strade così, senza distinzioni, in omaggio all’“-ismo” più trasversale
L’altro giorno, passeggiando per il mio quartiere (Trieste-Salario, Roma) mi sono imbattuto in viale Vittime del Genocidio dei Tutsi in Rwanda. Indirizzo insidiosissimo: provate a dirlo a un tassista senza ridere, o ad abbreviarlo sulla vostra autocertificazione (v. V.G.T. in Rwanda). Da sempre la toponomastica delle strade nella lingua parlata subisce sintesi o contrazioni, per praticità ed economicità del vivere; ed ecco che viale Alessandro Manzoni diventa viale Manzoni (vacci a capire se alla memoria dell’autore dei Promessi sposi o della Merda d’Artista), via Vittorio Veneto (in ricordo della battaglia della Prima guerra mondiale) si trasforma in via Veneto (in omaggio allo spritz), piazza Buenos Aires in piazza Quadrata (sic). Così facendo, viale Vittime del Genocidio dei Tutsi in Rwanda potrebbe facilmente diventare viale Rwanda, smarrendo completamente il suo senso commemorativo; viale Vittime del Genocidio già andrebbe meglio, se non fosse che la sua genericità (che allarga il tributo agli ebrei, agli armeni, ai pellerossa, alle balene…) rischia di essere tacciata per razzismo (Black Deaths Matter). Viale delle Vittime, invece, sarebbe una dicitura perfetta: non più generica bensì ecumenica, anzi, inclusiva.
E intercetterebbe lo spirito dei tempi: se il secolo precedente è stato attraversato da tante ideologie – fascismo, nazismo, comunismo, femminismo, consumismo… – non c’è dubbio che questo secolo abbia un unico grande “-ismo”, globale e trasversale: il vittimismo. Essere vittima oggi è l’unico vero status symbol; se non sei vittima non sei nessuno. Non c’è giorno in cui non sbuchino vittime, vittime ovunque, vittime di qualunque cosa; c’è chi stava bene fino a ieri, e solo stamattina (dopo aver dato un’occhiata alle tendenze su Twitter o Instagram) ha scoperto di essere vittima – e di non essere solo/a: al contrario delle malattie, non esistono forme rare di vittimismo, ce ne sono almeno centinaia di migliaia di vittime come te della stessa cosa; del resto se oggi si è vittime è per conformarsi, il vittimismo è di massa. Vittime di qualcosa, mai di qualcuno: se si è tutti vittime non c’è nessuno da incolpare (semmai un generico tutti), e se proprio venisse additato qualche carnefice possiamo stare certi che a sua volta sarebbe una vittima – di un equivoco, di un’ingiustizia, della caccia alla streghe o della cancel culture – perché al contrario della ragione, che brechtianamente a un certo punto va in sold out, dalla parte delle vittime c’è sempre posto, anche senza prenotazione, non devi nemmeno fare la fila, entri e ti siedi, si vede che hanno soppalcato.
Si è sempre vittime della società, di una cultura, di comportamenti con il nome in inglese (perché se dici “vittima di fischi per strada” o “vittima di presa in giro” al massimo scatta un codice verde); oppure si è vittime di quelle carnefici seriali che sono la lingua e la penna, che notoriamente fanno più male della spada – pare che per Cesare non gli fu fatale nessuna delle 23 pugnalate, ma il fatto che Bruto prima di trafiggerlo gli disse “tiè, frocio!”. (Si badi che il sottoscritto non mette in dubbio che oggi ne uccida di più la lingua che la spada, ma ritengo che ciò si debba al drastico calo di morti per spada nel XXI secolo). Siccome retorica e ipocrisia non muoiono mai, sarà il caso di provvedere sin da subito a dedicare una piazza o un viale alle Vittime (tutte, nessun* esclus*) oppure a intitolargli l’Altare della Patria; o presto saremo invasi da pietre d’inciampo per ricordare le vittime di catcalling, targhe commemorative sulle vittime del pregiudizio, monumenti in onore alle vittime del body shaming, scuole dedicate alle vittime del bullismo, sventramenti con colate di cemento e nuovi piani regolatori per fare posto a strade intitolate alle vittime del sistema
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