Augurarsi buona Pasqua senza neanche sapere il perché
La melassa sentimentalista segna la temperatura spirituale del nostro tempo
Se vogliamo avere un’idea del grado di estraniazione del nostro tempo rispetto alla tradizione cristiana, basta prestare attenzione agli auguri che anche quest’anno ci siamo scambiati per Pasqua. Pace, prosperità e salute l’hanno fatta da padroni. La resurrezione come una sorta di vaccino spirituale contro la depressione da lockdown e la paura del virus. Salute insomma, non salvezza. Stay safe, speriamo che passi “a nuttata”, che questa Pasqua ci porti pace e salute e ci aiuti a vincere il nostro egoismo: questo, più o meno, il tono dei messaggi augurali che abbiamo ricevuto. Anche con piacere, sia ben chiaro. Ma la domanda è: a parte il fatto che questi auguri ci sono arrivati per Pasqua, che c’entrano con la Pasqua? Essi testimoniano un’assenza, più che una presenza; sono segno di umana simpatia, non di partecipazione al mistero della morte e della resurrezione di Gesù. D’altra parte, non da oggi, il dolore straziante della croce e il sepolcro vuoto raccontano una storia troppo sconvolgente per noi umani. Lo testimoniano i tanti modi che sono stati escogitati nel corso dei secoli per edulcorarla o addirittura esorcizzarla e quello che sembra essere il modo specificamente nostro: derubricare il crocifisso a evento mediatico di scarsa rilevanza che in certe circostanze può essere utile ai nostri umanissimi desideri di pace, giustizia e salute. Tutto qui.
Eclissatosi ciò che di scandaloso, tremendo ed esaltante si consuma nel triduo pasquale, ci auguriamo ormai buona Pasqua più o meno come ci auguriamo buon compleanno: semplicemente per tirarci un po’ su il morale e sentirci magari più vicini l’uno all’altro. Proviamo a dare un’occhiata ai Whatsapp che ci sono arrivati e che abbiamo spedito in questi giorni. Al pensiero della morte e della resurrezione di Gesù dovremmo augurarci buona Pasqua con gioia, certo, ma anche con timore e tremore, invece in quell’augurio sembra risuonare soltanto la melassa dei nostri buoni sentimenti, un’assenza, appunto, non certo la speranza viva di Gesù Cristo redentore dell’uomo. Ma tant’è. E’ questa la temperatura spirituale del nostro tempo. Facciamo fatica a guardare la realtà, qualsiasi realtà, figuriamoci quella di Gesù Cristo che muore per noi.
C’è un nesso assai stretto tra la crisi della cultura cristiana e la crisi del senso della realtà. Il cristianesimo ha bisogno della realtà, non è una fiction o uno stratagemma per compensare le contingenze più o meno dolorose della nostra esistenza. Il dolore della croce è un invito a sprofondare nella realtà e nella storia di ciascuno di noi, con la speranza che qualunque nostro peccato sarà redento da quel sangue e dalla resurrezione che ne seguirà, con la speranza che, traendo forza da quel sangue, la nostra vita possa prendere anche un’altra piega a vantaggio di noi stessi e del mondo nel quale siamo, con la speranza insomma che l’inferno, qualunque sia la sua forma, non prevarrà.
In uno dei suoi tanti grandiosi aforismi Nicolás Gómez Dávila ci dice che “non è la sensualità che allontana da Dio, ma l’astrazione”. E’ questa pervasiva astrazione la causa principale della crisi della tradizione cristiana e dello spaesamento metafisico nel quale siamo piombati. Sia che si parli di religione, di politica o di economia, vediamo all’opera la stessa incapacità di tenere i piedi per terra, di guardare la realtà per ciò che essa è. E così sembra che la realtà non abbia altro modo per manifestarsi che attraverso la tragedia e la desolazione, come ci insegnano peraltro le opere di molti artisti del nostro tempo.
A tal proposito di desolazione, proprio a Pasqua un mio caro amico mi ha fatto notare un particolare che mi era sempre sfuggito e che certamente conferma l’estraniazione del nostro tempo dalla tradizione cristiana di cui stiamo parlando. A partire dall’ultimo decennio del secolo Ventesimo, in omaggio al principio della neutralità religiosa, nei libri di storia inglesi e americani le vecchie diciture con le quali si era soliti rappresentare il tempo prima e dopo Cristo, rispettivamente BC e AD (“before Christ” e “Anno Domini”), sono state sostituite con BCE e CE (“Before the Common Era” e “Common Era”). Confesso di aver sempre pensato che la lettera “C” di quelle diciture si riferisse in qualche modo a Cristo. Ma evidentemente mi sbagliavo. L’idea di un’ “èra comune” sarebbe più rispettosa dei non credenti, diversamente credenti ecc., e in più renderebbe meglio l’idea che stiamo parlando di una semplice convenzione. Non so a voi, ma a me questa irruzione improvvisa di realissima stupidità ha dato un certo brivido. D’altra parte la farsa è parente stretta della tragedia.
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