In ufficio vacci te
Se gran parte dei lavoratori preferisce lavorare da casa la colpa non è solo del Covid
Quasi nessuno vuole tornare in ufficio. E non perché il telelavoro sia effettivamente migliore, benefico o salvifico, ma perché gli uffici sono insostenibili. Lo erano prima della pandemia e adesso, sfibrati come siamo, ci sembrano inaffrontabili. Lo smartworking deprime, depotenzia, isola, affatica, non è ancora chiaro come disciplinarlo e, anche quando sarà chiaro, ci sarà da affrontare lo stachanovismo introiettato (workaholism, se preferite) e lo smarrimento di chi, nel lavoro e nel posto di lavoro, ha trovato la sola occasione di una vita migliore, da condurre e godere lì dentro.
Qualche giorno fa, il New York Times ha pubblicato le testimonianze di molte persone che si sentono affette dalla sindrome di burnout, sono diventate anedoniche, spente. Da una parte, questo dà una misura di come la relazione tra vita e lavoro, prima conflittuale e poi sinergica nel Novecento, fosse diventata, per le società occidentali, simbiotica. Dall’altra, però, mostra una possibilità che, nella discussione sulla vita che verrà, dovremmo cominciare a discutere e valutare, nella sua articolatissima complessità: la smitizzazione del lavoro.
Un sondaggio di Emg-Different per Adnkronos rileva che il 70 per cento degli intervistati (1.487 persone), a pandemia finita, vorrebbe continuare a lavorare a casa: l’85 per cento di loro sono donne, il 79 per cento ha fra i 35 e i 54 anni, l’88 per cento vive al nord. Sono numeri impressionanti e dicono qualcosa di verificabile in una conversazione informale con i nostri amici: all’ufficio si preferiscono il salotto, o peggio ancora la cucina, il vicino che urla al figlio che suona il flauto, la solitudine, il capo che ti spia, il collega che ti chiama alle sette di mattina o alle tre di notte. Chiarito che non si preferisce casa propria per amore di focolare o pigrizia, ma perché persino casa propria, con tutto il sopra descritto caos, è meno tossica e sfibrante di un ufficio, dovremmo cominciare a considerare che lo si faccia anche perché il lavoro sta tornando a essere lavoro e basta: un’attività che ti dà da mangiare, e tanto vale farla laddove mangi.
Il Covid ha accelerato la messa in discussione della filosofia del best place to work, la gabbia dorata della Silicon Valley, dove le aziende sono state pensate per darti tutto quello che dovrebbe darti una casa ma meglio e senza il fastidio della manutenzione e delle bollette – caro dipendente, ti diamo il campo da golf, il maggiordomo, il sussidio parentale, le pari opportunità, lavorare sarà così bello che non vorrai mai smettere, lavorare sarà meglio di vivere, lavorare sarà vivere. Soprattutto, il Covid ha accelerato la presa d’atto che a lavoro contano le relazioni più degli agi. Un contributo fondamentale a questa presa d’atto lo hanno dato le denunce di molestie, e non importa se un capo che dica a una dipendente “con una come te avrei volentieri una storia d’amore”, sia da considerarsi un molestatore. Importa che la mancanza di igiene, rispetto, misura e appropriatezza, nei rapporti fra dipendenti, che siano alla pari o no, è diventata un fatto centrale, così centrale da far preferire Zoom a una sala riunioni.
Gli uffici, dotati di Jukebox o no che siano, sono per la maggior parte dei lavoratori luoghi di frustrazione, rabbia e umiliazione. “Adesso, quando le persone mi chiedono come sia il mio nuovo lavoro, rispondo: è un lavoro”, ha scritto sul Nyt una ex dipendente di Google che ha lasciato l’azienda dopo aver denunciato il capo che la molestava, aver vinto la causa e aver ricevuto un trattamento ancora peggiore. Cosa succederà se l’entusiasmo e la fame&follia su cui abbiamo costruito la spinta al lavoro e alla vita di una generazione intera verrà meno?
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