Beppe Grillo, in un fermo immagine del video in cui ha difeso il figlio dall'accusa di stupro (Ansa)

Ciro Grillo e le accuse

Due parole che mancano su quella notte brava a Porto Cervo

Simonetta Sciandivasci

Alle presunte vittime si dà ascolto, non ragione. Ai presunti colpevoli si dà un processo giusto, in tempi accettabili. 

Beppe Grillo urla in quanto padre. Urla come sempre, ma stavolta di più, perché parla di suo figlio, indagato per stupro di gruppo, prossimo al rinvio a giudizio. Urla e dice atrocità che, dice Mentana al tg, sono comprensibili, anche se non giustificabili, perché “è un padre che parla”. Su questo punto s’è detto: il familismo e il garantismo amorale, lo scarrafone bello a papà suo, i vizi, gli automatismi, i crimini culturali. S’è detto della ricostruzione orrenda e insinuante che Grillo ha proposto dei fatti, e di come in essa ci fosse “il peggior repertorio maschile” e “la vittimizzazione secondaria”, ovverosia lo svilimento della ragazza che ha denunciato lo stupro.

 

Sono quattro coglioni, non quattro stupratori”, dice Grillo del figlio Ciro e dei suoi amici, e qui sta la riduzione sulla quale dovremmo riflettere: ci interroga come società civile, ci mostra un assunto radicato, ovverosia l’idea che la violenza sessuale possa essere un incidente, l’effetto collaterale di una sbornia, il punto più estremo del divertimento estremo. Qua è il nervo scoperto di una discussione che portiamo avanti da quattro anni nel modo peggiore possibile, con gli hashtag, le accuse pubbliche, il tracciamento ideologico: hai detto questa cosa perché sei un maschilista, perché hai introiettato il patriarcato. Gli effetti di questa eziologia sono nulli, a parte i messaggini dei maschi che ti scrivono una porcata e aggiungono che scherzavano, non vorrai denunciarli per catcalling. 

 

Quando Grillo urla lo fa da cittadino esasperato proprio da quest’eziologia, da uomo del bar che ne ha fin sopra i capelli del tribunale del riesame dei rapporti di forza e potere ed è questo che Mentana non vede, qui sta il metodo populista, il tentativo di dirsi vittima del “non si può più dire/fare niente” per cercare consenso – questa del non si può più dire/fare niente è una scemenza dello stesso ceppo del ritorno del fascismo: quando lo ammetteremo?

 

Ciò ribadito, nella discussione su Grillo mancano due parole importanti, che vanno premesse tanto davanti al nome di suo figlio quanto a quello della ragazza che ha denunciato la violenza: presunto, presunta. Presunto colpevole, presunta vittima. A fare il bene di Ciro Grillo in senso tribale ci pensa suo padre, a farlo in senso civile devono pensarci il dibattito pubblico e, naturalmente, la legge. #Nonunadimeno ha già scritto che alla ragazza si deve credere per forza, perché è una donna che denuncia – “Sorella, io ti credo”. E invece no. Qua ci sono un accusato e un’accusatrice, entrambi possibili vittime. Se guardassimo questa vicenda senza ideologie e indignazioni, lo vedremmo chiaramente. 

Alle presunte vittime si dà ascolto, non ragione. Ai presunti colpevoli si dà un processo giusto, in tempi accettabili. 

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  • Simonetta Sciandivasci
  • Simonetta Sciandivasci è nata a Tricarico nel 1985. Cresciuta tra Ferrandina e Matera, ora vive a Roma. Scrive sul Foglio e per la tivù. È redattrice di Nuovi Argomenti. Libri, due. Dopodomani, tre.