il foglio del weekend
Sarà una grande abbuffata
L’Italia riapre (quasi tutta). Da lunedì cornetti e pranzi senza tregua. Ma al ristorante la sera per fasce d’età
Attenzione: a chi si trova in zona arancione o rossa la lettura di questo pezzo può causare trombi – dai nervi. Pertanto se ne consiglia la lettura solo a chi si trova in zona gialla. Lunedì farò colazione al bar De Angelis (cappuccino e bomba alla crema), pranzo da Necci (autorevoli insider mi hanno rivelato che in occasione della riapertura farà il suo debutto nella carta dei dolci una nuova torta al cioccolato di ricetta francese), mentre per l’apericena (sì, l’ho detto!) sarò da Brylla. Ho già prenotato, neanche fosse il vaccino. E per i giorni successivi ho già prenotato anche all’osteria Chiana, Dar Nasone, Santo Palato, Casa Sanchez, Cul De Sac, Blind Pig, Drink Kong, Hotel Locarno, Trimani, Ercoli, Enoteca Carso… Così fino a domenica; poi se il Lazio resta giallo, da lunedì 3 maggio si ricomincia daccapo.
Colazione, pranzo, cena, merenda e aperitivo, tutto fuori casa: il 25 sera i piatti della cena invece di lavarli li butto, chiudo la porta della cucina e spero di non doverla riaprire mai più, forse la muro, forse come atto propiziatorio metto il mio frigorifero su “Te lo regalo se te lo vieni a prendere” e chiamo la compagnia del gas per dare la disdetta. Da lunedì mangerò e berrò fuori, all’aperto, nei mitici dehor: oasi di ristorazione nel deserto del Covid, scogli urbani a cui aggrapparsi per non essere travolti dalla quarta ondata, e altre metafore simili che esprimono il giusto compromesso fra un’occupazione del suolo pubblico e un provvedimento sanitario. (Per i puristi della lingua italiana che già borbottano “chiamateli gazebo, verande, pergolati”: il dehor deve questo nome al suo inventore, il conte Philippe Dehor (1718-1792) il quale, afflitto da un problema alla canna fumaria nella sala da pranzo della sua casa fuori Parigi che lo faceva tossire più della salsa berberé preparata dalla sua cuoca, ebbe l’idea di mangiare seduto fuori all’aria aperta, sul cornicione assieme ai piccioni – solo nell’Ottocento quest’intuizione fu sviluppata nella forma che noi oggi conosciamo, cioè con una pedana in legno a livello stradale e i piccioni sui tavoli o in mezzo ai piedi).
Da lunedì dunque bar e ristoranti invaderanno i marciapiedi delle nostre città con i loro tavolini, rubando finalmente il posto ai monopattini elettrici “parcheggiati” selvaggiamente senza criterio – ora voglio proprio vedere dove li metteranno, forse dove dico io. A sedersi ai tavoli fuori saremo noi, avventori “impressionisti” che amiamo mangiare en plein air, scegliendo cosa ordinare facendoci ispirare più dal paesaggio o dalla luce che dal menù – per poi spazzolare il contenuto del piatto con forchettate più rapide delle pennellate di Monet.
Ben venga dunque la cena alle 19.00, in tempo per il coprifuoco ma sopratutto per il tramonto: fritture dorate di calamari e gamberi su cieli rosa o lavanda, spaghetti aglio olio e ponentino, il giallo del mascarpone nel tiramisù che si staglia sul blu Savoia del cielo appena imbrunito; e chissà che riflessi nei calici di vino bianco, nei bicchieri di gin tonic! Per selezione naturale delle specie resteranno a casa i freddolosi, quelli che al ristorante vogliono sempre mangiare dentro, o se all’aperto abbracciati a un fungo calorifero, finendo con il litigarselo con i freddolosi dei tavoli accanto. In effetti, il vero tema delle riaperture non è il coprifuoco alle 22.00 ma il clima che c’è e ci sarà là fuori: il punto non è quanto tempo abbiamo per mangiare, ma quale tempo abbiamo mentre mangiamo.
Prenotare un tavolo all’aperto vuol dire esporsi alle intemperie, alle massime e alle minime, all’alta e alla bassa pressione, a qualsiasi variazione delle condizioni atmosferiche; vuol dire che i cambiamenti climatici, dopo aver sciolto i ghiacciai ai Poli e bruciato le foreste in California, in Australia e in Amazonia, ora si abbatteranno sulle tavole italiane, condizionando pranzi e cene. E a quel punto, quando una pioggia monsonica annacquerà il nostro gazpacho, il riscaldamento globale squaglierà il nostro gelato prima del tempo, o una tromba d’aria si porterà via la nostra pizza margherita dal piatto, chissà che anche l’italiano più indolente non diventi sensibile alle battaglie per il clima e a delle politiche più green. Una cosa è certa: da lunedì 26 aprile guarderemo più le previsioni del tempo che la curva dei contagi, parleremo meno del virus e più del meteo, non ci basterà sapere di che colore saremo ma anche che tempo farà -per esempio col “rosso di sera” può anche piovere, “bel tempo si spera” soltanto col giallo. A tal proposito: le previsioni meteorologiche per la prossima settimana non promettono nulla di buono. Dopo un weekend di anticiclone africano che ci farà assaporare un anticipo di estate e ci darà lo slancio per prenotare un tavolo all’aperto nel nostro ristorante preferito se non addirittura al mare sulla spiaggia con i piedi nella sabbia, ecco che già da lunedì tornano pioggia e grandine (specie al Nord) con temperature ben al di sotto della media stagionale. Insomma, per prendersi un caffè al bar seduti fuori la prossima settimana occorreranno (oltre ai soldi) delle galoche, un’incerata o giacca a vento, e un cappello a tesa larga da pescatore; e sotto le maniche lunghe, golf in lana leggera o cotone pesante, e calze al ginocchio – forse più che un caffè prederemo una cioccolata o un tè caldo, al massimo una grappa.
E questo pone il secondo problema, di ordine pratico: come ci si veste per le riaperture? Intanto ci si veste: via tute, leggings o pigiami, ma soprattutto tornano di moda scarpe e pantaloni – o gonne, l’importante è non uscire in mutande. Ma non basta: dalla cabina di regia del governo non fanno che ripetere che con le riaperture stavolta “non possiamo sbagliare”, dunque parafrasando il presidente J. F. Kennedy chiediamoci cosa possiamo non sbagliare noi. Look, per esempio: le riaperture seppur progressive e con limitazioni hanno un che di mondano, di (ri)debutto in società. Ma stavolta, al contrario dell’anno scorso, abbiamo l’obbligo di mascherina anche all’aperto: un obbligo che non ha nulla di sanitario (all’aperto e con il distanziamento la mascherina non ha alcuna ragione scientifica di essere indossata), quindi possiamo – anzi, dobbiamo – trattarla come una questione di etichetta, un estetismo, una stravaganza.
Chi si fa trovare a passeggio con una chirurgica o va a un aperitivo in terrazza con una Ffp2 non ha proprio capito lo spirito della cosa: al chiuso la mascherina è presidio medico sanitario, all’aperto è moda, stile personale, gioco. Bisogna metterci estro ed eleganza. Adesso non basterà più indossare una mascherina in stoffa, a fantasia o con le paiette, più o meno in tinta con l’abbigliamento, per non risultare anonimi bensì curati; ormai la mascherina è parte del guardaroba, e come tale andrà trattata. Intanto, è un accessorio; quindi va corredata con borsa, cintura o scarpe. Ci vorrà una mascherina da giorno, una da cocktail per il pomeriggio e una da sera – lunga, con lo spacco. Ci vorranno mascherine da sole, mascherine impermeabili, mascherine da bagno, mascherine da cerimonia (molto eleganti ma un po’ strette), mascherine sexy – attillate, in latex, pizzo o autoreggenti. E la vera differenza la farà come uno la indossa, la mascherina: calata sotto al mento o con il naso fuori è banale come chi la indossa correttamente; e anche chi ne mette due o tre una sopra l’altra ormai è ben poco originale, oltre che paranoico. Piuttosto farà colpo chi porta la mascherina sulle ventitré (leggermente inclinata con una narice mezza fuori), chi se la alza sugli occhi, chi non se la toglie nemmeno per mangiare e ne solleva solo un lembo quanto basta per far passare la forchetta.
L’Italia riapre, riprende persino la libera (o quasi) circolazione delle persone fra le regioni italiane: una specie di Schengen, ma più Orte. Si potrà andare in Umbria, Toscana, Liguria, Marche… Tutti luoghi che nel corso degli ultimi sei mesi hanno acquistato un fascino esotico da località remote, irraggiungibili, e proprio per questo mitiche e leggendarie – specie il Lazio, che pare ormai sia meta di turismo vaccinale tipo Mauritius: la gente verrà a Roma o a Viterbo non tanto per scroccare un vaccino quanto per vedere gente vaccinare altra gente, uno spettacolo che in alcune parti d’Italia ha ancora dell’incredibile.
Per spostarci nelle altre regioni d’Italia bisognerà essere vaccinati, guariti dal Covid o negativi al tampone; può sembrare complicato e rocambolesco, ma il peggio sarà dopo, quando cercherai di raggiungere la tua meta (in Basilicata, Molise, Calabria) fra strade fatiscenti e ferrovie insufficienti. L’Italia riparte, ma non solo all’aperto: si potrà anche andare al cinema (al primo o secondo spettacolo del pomeriggio) a fissare uno schermo vuoto, però seduti su poltroncine comode e a due metri di distanza l’uno dall’altro così da poter stendere gambe e braccia in tutte le direzioni; niente popcorn, salvo uno prima di entrare non ne nasconda una bella manciata dentro la mascherina e poi durante il pomeriggio come un ruminante con il suo bolo non ne mastichi un po’.
Inoltre, si potrà anche andare in visita da amici in case private; ma mai in più di quattro, come al ristorante. (Dal conteggio sono sempre esclusi minori o disabili, che infatti sono richiestissimi da chi vuole dare una grande festa con più di cento persone senza incappare in sanzioni o denunce di Alessandro Gassmann). Riprende dunque la vita sociale, ma quattro alla volta – il ministro Speranza avrebbe voluto incontri fra massimo tre persone, ma alla fine l’hanno spuntata gli scambisti ottenendo il minimo sindacale- ed “evitando gli incontri non necessari”, come dicono gli epidemiologi in vena di morale: sarà una socialità ristretta e di necessità, cosa che vi porterà a escludere molti conoscenti dai vostri inviti, ma soprattutto a essere escluso da cene, brunch, aperitivi.
Oltre tutto per sostenere una cena a quattro ci vogliono gli argomenti di conversazione: in una grande tavolata si parla di tutto e di niente, te la cavi anche con pochi commenti, e puoi persino concederti il lusso di startene un po’ in disparte; se si è in quattro alla stessa tavola invece bisogna partecipare, essere attenti, avere qualcosa da dire – non esattamente un requisito facile in un momento in cui nessuno ha viaggiato da nessuna parte, abbiamo tutti visto le medesime serie tv e la notizia del giorno è la stessa da un anno. Fortuna che c’è il coprifuoco, che ci costringe a mangiare veloce e a salutarci presto, salvando tutti e quattro dall’imbarazzo o dalla noia. E a proposito di tempo che scorre veloce, eccoci giunti alla vigilia delle riaperture, emozionati ma anche un po’ smarriti: perché fra regole e deroghe ci siamo persi e non ci stiamo già capendo più niente. C’è chi confonde il coprifuoco e sta a casa fino alle 22.00 per poi uscire fino alle 5.00; c’è chi pensa che il caffè al banco non si possa prendere perché si rischia una trombosi; c’è chi crede che nei ristoranti diano da mangiare per fasce d’età – prima agli anziani e ai soggetti fragili tipo celiaci o intolleranze alimentari, poi over 60, infine i giovani se avanza qualcosa. L’Italia riapre, adesso dobbiamo riaprire gli italiani.
I guardiani del bene presunto