il foglio del weekend
Finalmente liberi di amarci
Caro amore del futuro, ti scrivo. Da un anno a questa parte abbiamo corso il rischio di contagiarci. Questa vulnerabilità avrebbe dovuto insegnarti qualcosa. Ora però non ho più voglia di perdere tempo
Caro amore del tempo che verrà non appena saremo decolorati, bentrovato, bentornato, benvenuto. Ti do del tu per prudenza, eleganza, ma sia chiaro che per me contieni moltitudini: ora che è stato finalmente chiarito che la vita è molto meno che una sola, è mezza, una mezza sola, almeno vorrei moltiplicare e centuplicare gli amanti.
Caro amore del futuro, t’avrei chiamato così una volta, fino a un paio d’anni fa, quando il futuro era un piano, a volte persino una vendetta, mentre adesso non è niente, non c’è (meglio, no?), ti scrivo perché stiamo per tornare a incontrarci, cercarci, toccarci, baciarci, scoprirci, parlarci, vederci la faccia e le gambe e il culo e, francamente, non so quanto desideriamo farlo davvero. Hai provato a prenotare un tavolo per il 26, il giorno della liberazione dopo la Liberazione, e naturalmente hai trovato tutto pieno perché tutti, come te, prima di te, hanno pensato di festeggiare il ritorno, battezzarlo simbolicamente e, soprattutto, di approfittare, prendersi questo pezzo di apertura finché dura, finché tiene. In questa foga, ti riconosci? In quest’ansia, cosa vedi? Non ti sembra di assomigliare ai forzati della domenica, quelli che s’incolonnavano sulla Pontina, verso il mare, trascorrendo otto ore in macchina per farne un paio di spiaggia (putrida), ammassati, appiccicati, frastornati, per dirsi, alla sera, d’aver fatto una gita, di non aver gettato via la domenica, d’aver anche loro partecipato al grande svago, d’essersi goduti l’estate e il diritto alla pausa, ovverosia la differenza tra loro e gli schiavi? Non ti sembra, insomma, d’aver fatto una cosa tanto per non ascoltare, tanto per fingere, per non vedere?
Capisco che ci sia una differenza tra gli assalti di ora e quelli di allora, capisco che adesso affrettarsi a ripristinare la vita e le sue cene e i suoi appuntamenti e le sue ordinarietà e straordinarietà sia un modo per mantenersi vivi, per sperare e pure pur aiutare il paese, ma a te, amore mio, cosa cambia se aspettiamo un’altra settimana o due o cinque, per rivederci intorno a un tavolo apparecchiato da altri, mangiando paste scotte da altri? Saper aspettare è così importante.
Mi dirai che sono mesi, più di un anno che aspettiamo, ti dirò che non è vero, che quella che in tanti, quasi tutti, hanno raccontato come una vita in standby, è stata vita e basta, solo diversa da sempre, nuova, fatta di coinvolgimento e non di partecipazione. Ora mi dirai che la libertà è partecipazione e io cercherò di non sbuffare, e ti cercherò quella poesia di Seamus Heaney, “Il racconto della moglie”, dove l’unica signora che non fa niente, durante un pic-nic, è quella grazie alla quale succedono le cose, ed è quella che vede e sente e s’accorge di tutto. A me di partecipare non importa più, sarà colpa della pandemic fatigue, cosa vuoi che ti dica, ma se c’è una cosa che le quarantene mi hanno dimostrato è che la maggior parte delle mie trascorse partecipazioni erano del tutto superflue e che un sacco di cose che mi parevano irrinunciabili, sono completamente rinunciabili.
Mi dirai che il mondo di prima era migliore, più caloroso, più libero, più porco, più intrigante, più rock, più punk, e io ti dirò che nessuno te lo ha portato via, tant’è che siamo qui a prenotare una cena per farci incontrare e, possibilmente, innamorare, come si faceva nel Novecento e, con grande difficoltà, dopo moltissimi patimenti, negli anni Zero – ma credi che non ricordi quanto fosse complesso, nel 2019 e 18 e 17 e 16, principiare una relazione, uscire, chiacchierare? C’era il #metoo, certo, e adesso c’è il suo affluente, la cancel culture, e tu dici che entrambe le cose hanno dato un colpo mortale al desiderio, che per manifestarsi non può avere il terrore di offendere una minoranza, animale o vegetale che sia, né di chiedere permesso, e io ti dirò che sono d’accordo, ma solo in parte, e che prima di tutto voglio fare alcune premesse. Il desiderio non è la primavera, la quale non bussa ed entra sicura. Il desiderio è un mistero infagottato in moltissimi vestiti, Elisa Cuter, nel suo meraviglioso saggio per Minimum Fax che si chiama “Ripartire dal desiderio”, ha scritto che esso è “quell’esperienza che crea un conflitto, una cesura tra l’oggetto e il soggetto”. Io non voglio sanare quella cesura, anzi, ci voglio scavare dentro, senza te o con te chi lo sa, ma il punto è: in quale desiderio scaviamo? Tu cos’hai desiderato in tutti questi mesi, e come, e perché? Ci hai pensato oppure hai mandato in letargo tutto tranne i buoni pasto, e quindi adesso ritieni che “tornare alla vita” significhi scongelare tutto quello che eravamo e siamo stati, e per dimostrare che siamo vivi dobbiamo morire per un tavolo il 26 di aprile, fare l’amore per strada, farci piedino e manino e gomitino, toccarci come non ci toccavamo nemmeno nel 1994? Te lo chiedo perché l’altro giorno mi hai mandato un link che non ho aperto, di quelli che rimandano ad articoli che rimandano a Dagospia che rimanda alla cronaca del Corriere di X (non nomino nessuno perché temo gli avvocati delle minoranze regionali italiane più di SeNonOraQuando), e non l’ho aperto perché m’è bastato il titolo, che diceva di due ragazzini beccati a fare sesso per strada, nemmeno troppo riparati, e tu non pago hai commentato con una frase delle tue, mezza emoticon mezza editoriale di Severgnini, con la quale mi comunicavi che il mondo sta preparandosi a una nuova Woodstock, una nuova liberazione sessuale, una specie di all you can fuck.
Cosa accadrà, caro mio, non lo so. Un anno fa il Financial Times diceva che erano aumentate vertiginosamente in tutta Europa, e soprattutto nei paesi protestanti, le vendite di lingerie e preservativi e vibratori e frustini, perché le persone cercavano passatempi, e visto che i mesi di noia e chiusure non avevano sbocchi, s’erano ricordate che il sesso coniugale di tempo ne può riempire parecchio. E poi? E adesso? E domani? Non lo so.
Però so cosa vorrei che facessi tu, che facessi io, che facessero le persone che amo, voglio amare, spero di incontrare; so che tutto questo dolore non ci sarà utile perché soffrire non serve che a soffrire, e nei casi peggiori a renderci peggiori, sono della scuola de “Il Danno”, non solo perché Jeremy Irons è lì qualcosa di oltreumano e perché “chi ha subìto un danno è pericoloso: sa di poter sopravvivere”, ma perché cavare il buono dal cattivo è troppo faticoso, mi accontenterei di cavare il possibile. Siamo scampati (quasi) a una pandemia, ho acquisito un forte senso della selezione, una specie di gelosia per il mio tempo e i miei desideri. Non verrò a pranzo con te solo perché tu vuoi venire a pranzo con me, non verrai a pranzo con me solo perché hai paura di morire, perché ti annoi, perché ribolli in casa, perché è primavera, perché hai finito “Shtisel”, perché non sai che fare ma qualcosa dovrai pur fare, soprattutto non verrò a pranzo con te per farti illudere che la guerra sia finita e il nemico passato, vinto, battuto. Non verrò a pranzo prima di ogni cosa perché verrò a cena: il coprifuoco alle dieci è magnifico, un mezzo di emancipazione dalla perdita di tempo più potente ed efficace della lavatrice, perché se sarai un terrificante conversatore potrò scappare a casa senza doverti sopportare a lungo e se, invece, sarai un abile conversatore, potrò farti capire che non c’è bisogno d’indulgere in ulteriori rituali seduttivi, niente bicchiere della staffa, niente Negroni lì e amaro là, in mezzo quindici chilometri di traffico, fileremo da me o da te con la scusa di dover rispettare la legge e via, olé, ci saremo tolti il pensiero come quando Woody Allen bacia Diane Keaton all’inizio del loro primo appuntamento, così da non rovinarsi la cena e la digestione. Praticità.
Come che vadano i nostri futuri incontri, caro amore di dopodomani, t’invito a sposare questa pratica placidità, a smetterla di credermi agitata, a smetterla di crederti agitato, a considerare che tu vuoi arrivare al dunque quanto io voglio arrivare al dunque, ma siccome tu hai un modo piuttosto spiccio e manesco di farlo, ti consiglio di lasciar guidare me. Il combinato disposto di distanziamento sociale e affluenti del nuovo femminismo, dici tu, dicono in molti, bloccherà il sesso, l’amore, le coppie, e proprio adesso che ci stavamo risvegliando, che la mancanza di contatto per legge e per sicurezza ci aveva spinti a riconsiderare di nuovo tutto, a sentire la voglia di quella frattura di cui parla Cuter, di rischiare il no, il sì, il forse, l’assalto, l’impeto, ora che forse potevamo lasciarci andare a una animalità più costumata e dettata anche dall’astinenza, quindi forse perdonabile perché istintiva, che cosa ti va a tirare fuori la contemporaneità? Il catcalling! Caro amore del futuro, mi hai chiesto di spiegarti il catcalling, lo hai fatto ridacchiando, perché sai benissimo che cos’è, ma hai voluto provocarmi, hai voluto tendermi questo agguato e sondare il terreno, ti sei detto: se mi risponde ridendo, allora è di quelle che non s’offendono se parli alle loro tette; se mi risponde ringhiando, allora è di quelle che non vanno dall’estetista perché ritengono che farlo significherebbe perpetrare un’immagine patriarcale della donna.
Caro amore del futuro, vedi perché ti dico che è meglio se lasci guidare me, vedi quanto sei grossolano? Con un anno e mezzo di pandemia sulle spalle, credi che io possa avere la pazienza di stare alle tue provocazioni, ai tuoi test, al bisogno che hai di dirti vittima di questo tempo che massacra i maschi bianchi occidentali per colpe che hanno commesso per procura, peccati originari, pensieri sbagliati, goffaggini? Caro amore del futuro, così come hai imparato a stare in fila quando c’era la zona rossa, la prima della nostra fila, quella quando si usciva solo per andare al supermercato, e si camminava tutti come zombie in un video di Moby, e sei sopravvissuto, e anzi hai capito che rispettare la fila non ammazza, non inibisce, non depriva la libertà di nessuno, hai sperimentato che reprimere il tuo desiderio di saltare la fila è possibile, e che il desiderio di saltare la fila ti è stato inculcato, non è mai stato tuo, tu vuoi solo comprare in poco tempo un barattolo di acciughe, ecco, allo stesso modo, mi sento di garantirti che, attingendo alle stesse forze impiegate nel suddetto sforzo, potrai vivere ed esprimerti e sedurre e corteggiare senza fischiare a una donna, senza urlare per strada quanto trovi eccitante il suo portamento, insomma evitando di fare a una donna quello che vorresti fosse fatto a Lukaku.
Mi aspetto grandi cose dalla nostra reciproca vulnerabilità, per la prima volta da quando siamo nati abbiamo corso, per mesi, lo stesso rischio (anche se, ti dirò, le donne hanno mostrato una resistenza maggiore al Covid, come per tutto), abbiamo dovuto proteggerci nello stesso modo: è stato un grande esercizio di parità. La useremo? Usiamola. Paga il conto, io ho sopportato Tinder, WhatsApp, Zoom, le tue foto, il tuo bisogno costante di contatto, mi merito una ricompensa.
Non c’è bisogno che mi chiedi il permesso, per darmi un bacio: lo capisci dalla mia faccia se mi piaci abbastanza da volerne uno. Prima era più difficile che lo capissi, le tue capacità di autogiudizio così come le mie capacità di autogiudizio erano falsate dagli spot d’autostima, dall’idea di mondo che avevamo tutti, quella in base alla quale la realtà esiste per servirci e quindi noi possiamo prenderla, e nessun no è ammesso, perché noi valiamo, perché il mondo è aspro ma è nostro: tutte balle che il Covid ci ha strappato di mano. Il Covid è stato un grande no, un grande basta, un enorme argine: ci ha rimpiccioliti, riposizionati. Così diminuiti, con l’ego discusso e non vilipeso, vorrei che avanzassimo verso l’altro: con lo sguardo pulito dalla superpotenza, saremo in grado di capire meglio se abbiamo davanti qualcuno che acconsente o non acconsente, qualcuno che ci vuole o non ci vuole, qualcuno che è certo o incerto.
Caro amore del futuro, ho appena rivisto “Ghost”, quello con Demi Moore e Patrick Swayze, lei viva e lui fantasma, quello del vaso di terracotta, quello con la canzone che dice che il tempo può fare molto, può aumentare il desiderio oppure distruggerlo, e questo solo vorrei che fosse il mio cruccio, e il tuo cruccio: “Are you still mine?”.
Hai visto, sono diventata possessiva, proprio io che prima della pandemia dicevo che le persone si amano, non si possiedono. Lo penso ancora, però se tu fossi mio, in un modo nuovo, tutto da discutere, a pranzo e a cena fino alle dieci, con tutte le certezze crollate e quindi da reinventare, accidenti, amore mio, quanto sarei felice. Abbiamo parlato troppo, dici, per un anno e più, non abbiamo fatto che parlare. E’ vero, ma adesso lo faremo senza la maschera, allenatissimi, sai quanto sarà bello?
Politicamente corretto e panettone
L'immancabile ritorno di “Una poltrona per due” risveglia i wokisti indignati
Una luce dietro il rischio