uffa!
Il 30 aprile 1993 lo squadrismo politico macchiò la storia repubblicana
La fierezza di Craxi e il rifiuto di passare dalla porta sul retro, il parlamentare missino che distribuiva monetine, il silenzio dei giornali. Il racconto nel libro di Filippo Facci
C’è che quando un libro te lo tieni nel gozzo per trent’anni prima di farlo erompere fuori, è probabile che ti venga bene per quanto tempo lo hai covato a forza di rabbia e di memoria. Quel che è successo al cinquantaquattrenne Filippo Facci che aveva 25 anni o poco più quando cominciò a muoversi per le stanze della casa socialista e di cui esce adesso 30 aprile 1993 (Marsilio, 2021), un libro che già nel titolo allude al più sciagurato esempio di squadrismo politico della nostra recente storia repubblicana.
Era la sera del 30 aprile 1993. Il giorno prima Craxi aveva pronunciato a Montecitorio un discorso di cui Marco Pannella disse che aveva “onorato il Parlamento italiano”, quel discorso di cui molti di noi hanno a mente le immagini salienti. Bettino in piedi che si volge ora all’uno e ora all’altro lato dell’assemblea a dire che lui lo aveva imparato fin da quando portava i calzoni alla zuava che l’intero apparato della politica democratica pluripartitica si regge sul prelievo “illegale” di soldi con cui fare funzionare i giornali di partito, le federazioni locali e i loro funzionari, le riunioni dei comitati centrali con centinaia e centinaia di persone cui rimborsare viaggi e soggiorni, le campagne elettorali che si succedono ogni due per tre. Qualcuno dica che non è vero e io replicherò che è uno spergiuro, continuava Craxi. Tutti voi le ricordate a puntino quelle immagini, la fierezza di Craxi mentre più che mezza Italia gli stava dando addosso, e ricordate a puntino che non si sentiva una mosca volare mentre quelle parole risuonavano nell’aula sacra della democrazia parlamentare. A discorso finito si passò alla votazione in cui i deputati dovevano decidere se sì o no Craxi era colpevole di un subisso di accuse tranne quella di avere crocefisso Gesù Cristo. Era lo stesso Parlamento che tre anni prima aveva amnistiato tutti i partiti dall’avere intascato in un modo o in un altro tangenti et similia.
Per come erano andati gli schiamazzi della politica corrente e l’ostinazione di una parte della magistratura, adesso il solo e unico imputato della politica italiana che si fosse rifocillato di soldi prelevati illegalmente appariva lui, quell’uomo corpulento e che all’occasione sapeva come essere politicamente prepotente, uno dei quattro o cinque uomini politici che hanno marchiato la storia italiana del secondo Dopoguerra. Stando alla carta, Craxi avrebbe dovuto essere seppellito da quelle votazioni, ciascuna votazione per ciascuna accusa. Aveva contro l’allora fortissimo Pds, il Msi, la Lega, spicchi importanti della Democrazia cristiana. E invece andò diversamente, e Craxi se la cavò in quattro votazioni su sei. I franchi tiratori avevano imperversato per le ragioni le più contrastanti, e comunque era un’autonoma decisione del Parlamento.
Nelle piazze della politica e sui giornali dell’indomani, Facci lo documenta a perfezione, fu un putiferio. Tanto per cominciare si dimettono tre ministri del governo Ciampi appena nominato. Sull’Indipendente diretto da Vittorio Feltri compare un editoriale di prima pagina dove Craxi viene denominato “un capobanda mafioso”. Giorgio Benvenuto, quello che ha preso il posto di Craxi come segretario del Psi, rilascia un’intervista alla Repubblica che ha per titolo “Craxi? Mai più nelle liste del Psi”. Il cardinale Carlo Maria Martini pronuncia innanzi a una massa di fedeli le seguenti parole: “Ci fa paura vedere come si comporta la classe politica e lo stesso Parlamento con azioni a sorpresa, troppo difformi dalle attesa della gente”. A Milano il candidato sindaco missino Riccardo De Corato si ammanetta innanzi al portone dello studio di Craxi in Piazza Duomo con un cartello che recita così: “Craxi in libertà, manette all’onestà”. Sul palco di una piazza fiorentina il professor Pio Baldelli paragona la votazione favorevole su Craxi al ratto di Aldo Moro da parte delle Br.
Ma il meglio viene alle 19 di quel 30 aprile quando Achille Occhetto prende la parola innanzi a una platea di fedelissimi che non la smette di gridare il suo odio più veemente nei confronti del segretario del Psi. Il quale se ne sta in quel momento nella sua abituale residenza romana, a un centinaio di metri dal palco su cui Occhetto sta tuonando contro di lui. L’eco neppure troppo lontana di quel frastuono arriva alla sua stanza all’ultimo piano dell’Hotel Raphaël, una stanza il cui inverosimile disordine mi era stato raccontato una volta dalla mia amica Marina Ripa di Meana. Intanto Craxi è sceso nella hall dell’albergo, la cui entrata è presidiata da un’esigua fila di poliziotti. Poco dopo le otto di sera deve avviarsi verso gli studi Mediaset al Palatino dove Giuliano Ferrara lo aspetta per una diretta televisiva. Innanzi al Raphaël l’assembramento dei reduci dal comizio di Occhetto sta crescendo a vista d’occhio, e così le mitragliate di insulti contro l’ex capo del governo: “Bettino / Bettino / il carcere è vicino”. Il telefonista dell’albergo, che è un amico di Craxi, gli dice che è il caso che lui esca dalla porta posteriore dell’albergo. Craxi replica che non se ne parla nemmeno che lui dimostri di avere paura. Un dirigente del commissariato di zona si fa avanti a cercare di rabbonire la folla, lo prendono a sputi. Intanto Craxi s’avanza verso l’uscita, esce, le urla e il lancio di monetine si infittiscono (un parlamentare missino s’era fatto cambiare dal tabaccaio diecimila lire in monetine da poche lire e le aveva distribuite tutt’attorno). Craxi ha un attimo di esitazione prima di entrare in auto dal lato posteriore destro dell’Alfa Thema. La macchina sgomma in direzione del Palatino. Sui giornali dell’indomani, conclude Facci, non un solo cenno a quanto era successo. In tutto e per tutto di quel ributtante episodio di squadrismo resteranno solo le immagini scattate dalla telecamera di uno che stava lì per caso.
generazione ansiosa