spazio okkupato
Il lutto al tempo dei social
Come piramidi virtuali che raccolgono ricordi e testimonianze, i social rappresentano la terribile bellezza della morte nell'epoca digitale. Sullo sfondo, le pagine di necrologi sul giornale
Mi rendo conto che la mia assiduità con la pagina dei necrologi del Corriere della Sera possa sembrare sospetta, ma l’annuncio pubblicato martedì 4 maggio è di una tale lancinante bellezza da oscurare le brutture del mondo, le polemiche su Fedez e gli assembramenti interisti, e farci guardare le cose che contano nella vita, a cominciare dalla morte. Ne trascrivo di seguito il testo nella speranza di fare cosa gradita all’estensore e alle persone citate: “Paolo d’Amico nel suo ottantasettesimo anno di vita ricorda con immutato rimpianto chi più gli diede affetto, amicizia, insegnamenti: la moglie Lelia Pozzi, il papà Guido d’Amico, la nonna Gina Raina, l’ing. Tullio Afferni, il prof. Paolo Beonio Brocchieri, il prof. Attilio Camoriano, l’avv. Michele De Francesco, i signori Marisa e Efrem La Fleur, i signori Andreina e Carlo Pozzi, il dott. Giancarlo Taverna – Milano, 4 maggio 2021”.
Quest’anno di Covid ha segnato il definitivo passaggio del lutto da giornali e televisioni ai social. Alla commemorazione collettiva, quella in cui tutti accorrono a parlare del morto famoso postando foto o ricordi con lui, si sono aggiunte le celebrazioni private. Negli ultimi mesi su Facebook, Twitter e Instagram ho letto decine di annunci di persone che avevano perso qualcuno e volevano ricordarlo. Ma è da una decina di anni che i social hanno cominciato a occuparsi della morte e si sono dovuti dare regole per gestire le pagine di chi non c’è più, offrendo per esempio la possibilità di rendere commemorativo un account come fa Facebook. I social sono diventati le nostre piramidi, lo spazio pubblico dove rimarrà quello che avremo fatto, amato e scritto in vita, le foto dei traslochi, dei viaggi, dei libri, dei fidanzati e dei figli, dei gatti e dei cani. Il punto a partire dal quale si potrà ricostruire la rete di relazioni e amicizie di ognuno. Conosco una donna che ogni anno, nella notte dell’anniversario della morte del figlio diciottenne, posta un ricordo per lui, e mi è capitato di risalire di link in link, di contatto in contatto, nella vita di questo ragazzo che non ho mai conosciuto, di vedere il dolore che ha lasciato e com’era cresciuto e cambiato prima di morire in un incidente. E’ questa, credo, la terribile bellezza della morte nell’epoca digitale, il fatto che ognuno possa lasciare tracce che i vivi possono raccogliere, come Pollicino, per comporle in un insieme.
L’impossibilità di fare altrettanto è la ragione per cui mi commuove l’annuncio del Corriere della Sera. I ricordi analogici assomigliano a lapidi in cui quello che conta sta fuori dal quadro, perché la morte per definizione esce dall’inquadratura, non si vede. Come nell’“Altare dei morti” di Henry James (o “La camera verde” di François Truffaut, se preferite) i morti circondano i vivi che sono intrappolati nella cornice perché occupano un tempo e uno spazio minuscoli rispetto alla vastità dell’assenza. Il lutto e la commemorazione analogiche sono gesti che spingono a immaginare mondi inesplorabili e assenti, e istanti tristi e bellissimi di chi c’è ancora.
Nel caso del professor d’Amico immagino un uomo “nel suo ottantasettesimo anno di vita” che sente di conoscere più persone morte che viventi e decide di ricordare sul quotidiano che ha letto per tutta la vita quelli che hanno significato qualcosa per lui. E’ un atto privato che diventa pubblico in forma di elenco e in un formato – il necrologio a pagamento – un po’ morente di suo. La potenza del messaggio sta nello spazio bianco tipografico che circonda ogni nome. Ho cercato su Google, volevo sapere qualcosa di più delle persone citate, ho scoperto che Lelia Pozzi, la moglie, era una studiosa, collezionava opere di Fëdor Dostoevskij ed era esperta di Théophile de Bordeu, un medico francese del Settecento considerato padre del vitalismo; che Paolo Beonio Broccheri è stato un orientalista famoso, professore universitario, autore di libri su storia del Giappone, filosofia cinese e rapporti tra Confucio e cristianesimo (in rete un certo professor Keiichi Takeuchi racconta l’arrivo del giovane studioso a Tokyo nel 1959 per una borsa di studio); e benché la qualifica prof. mi lasci qualche dubbio, credo che Attilio Camoriano sia stato un partigiano, nome di battaglia “Biondo”, e un giornalista sportivo dell’Unità di cui sul web si trova una foto al Giro d’Italia del 1948 insieme a Vasco Pratolini e Alfonso Gatto. Qualcosa ho scoperto anche su Paolo d’Amico, naturalmente, ma non ne scriverò qui, per rispettare il suo silenzio. Non ho trovato nulla, invece, sul conto di Marisa ed Efrem La Fleur che per me rimarranno per sempre la coppia con i nomi più belli del mondo. Quello che ho scoperto, però, soprattutto, è che prima di Internet gli umani camminavano sulla terra leggeri.