Tocca studiare il maggese per capire come riaprire il mondo

Antonio Pascale

Salvare i giardini per salvare l’economia. Un pomeriggio agricolo-letterario passato tra Sermoneta, Anzio e Latina

Passeggi per le strade del borgo di Sermoneta (scarsi 1.000 abitanti, mi dicono), con i ristoranti chiusi (un paio stanno ristrutturando), deserto (in tutto 7 persone incontrate), dunque, scopri che a bassa densità corrispondono visioni ad alta intensità. Per esempio, avevo mai fatto caso, nelle mie visite al borgo, prepandemia, affollato, pigiato, col brusio dei ristoranti in sottofondo, avevo mai fatto caso, dicevo, a questo cactus altissimo che cresce appoggiandosi nell’angolo formato da due pareti di pietra? O a certe composizioni di gerani e pietre? Al cercis siliquastrum, tra l’altro fiorito, e al lauro, pure questo fiorito, a Piazza del Popolo? Sotto le cui fronde puoi sederti? Manca poco alle riaperture. Passeggi di sabato per le strade deserte ed entri nel classico stato di spleen e insomma, da una parte non vedi l’ora che tutto questo sia finito, e infatti fioccano, come pioggia rigeneratrice, le dichiarazioni tipo: la prima cosa che farò appena apriranno. Dall’altra, non c’è niente da fare, ti chiedi: ma davvero torneremo a intasarci? Innervosirci? A passare sotto questo cactus o il cercis fiorito e non ci faremo caso? Come potrebbe essere altrimenti, vista la quantità di gente che a Sermoneta, per esempio, viene per mangiare o assaggiare il prosciutto di Bassiano e da una parte fa andare avanti l’economia locale, dall’altra non ti fa vedere niente, o perlomeno non come adesso, perché le composizioni poetiche, come la luce che taglia in due un muro e lo colora di rosa selvatico, o le scale in pietra delimitate da oleandri, tutto questo scompare, oscurate dall’eccessiva presenza del prossimo tuo.

 

Come accade nelle ristrutturazioni psicologiche a seguito di lutto o trauma, la domanda è: c’è qualcosa di utile del mondo pandemico che potremmo portarci nel mondo post pandemico? Come dicono in tanti, qui vanno messi dei limiti, la pandemia questo ci ha insegnato.

 

Ma il concetto di limite l’ho perso già nel 1981, quando Gaetano (Massimo Troisi), in “Ricomincio da tre”, cerca di spiegare a Robertino (Renato Scarpa) qual è il limite, cioè quante volte uno può fare l’amore senza incorrere nel peccato. Si impegna molto ma finisce che gli dice di uscire di casa e toccare le femmine, perché non c’è nessun limite. Vero. Il limite si scontra con la vita. Vogliamo vivere, ma non consideriamo che tutti lo vogliano ed è giusto così, nessuno vuole morire, quindi, simbolicamente andiamo tutti a Sermoneta, ci intasiamo, ci innervosiamo, non vediamo niente e poi ci va di traverso il prosciutto di Bassiano. Bene, che facciamo quando la densità abitativa salirà a 10 miliardi, con pochi occidentali (meno di due miliardi)? Paura, vero? Quindi ce la prendiamo con l’uomo, cioè con un concetto, in fin dei conti, astratto. Coniamo il termine antropocene, imponiamo dei limiti, accusando quest’epoca nostra di vari misfatti: ci impediscono di respirare perché tutto brucia.

 

Pensiamoci: l’elemento che ai tempi ha distrutto quasi tutte le specie è stato l’ossigeno. E’ o non è una buona metafora? La molecola ha fatto fuori la gran parte dei batteri anaerobici e ha permesso la fotosintesi e la nascita di altre specie, tra cui noi. E vabbè, voi dite, erano batteri anaerobici, sai che perdita. Ma che ne sappiamo se, magari sul lungo periodo, via selezione darwiniana, avrebbero prodotto una civiltà migliore?

 

La verità? La si vede a Sermoneta, ma anche più avanti, verso il mare, tra le dune di Sabaudia, poche orme sulla sabbia, due macchine parcheggiate, i bellissimi fiori di carpobrotus edulis, diffusi a macchia, a tappeto, e dire che erano stati introdotti per proteggere le dune, e ora a parte che danno cibo ai topi ma minacciano altre specie mediterranee.

 

Dunque, la verità? Quella che nel dibattito ecologico fatichiamo a dire e nominare è che questo mondo permette a otto miliardi di cittadini di vivere e di morire tardi. Un progresso mai visto. Roba di cui, come rappresentati dell’antropocene dovremmo essere orgogliosi, basta ricordare alcuni parametri, otto miliardi di cittadini (presto arriveremo a dieci). Mortalità infantile bassissima (tranne nei paesi molto poveri), aspettativa di vita alta (anzi, invecchiamo tanto e nasciamo poco), mortalità delle donne per parto praticamente scomparsa (tranne nei paesi molto poveri), indice di fertilità in calo, tanto che è diventato un problema, in Italia, si è sotto la soglia di sostituzione, fissata a 1.5, però questo vuol dire che si è più ricchi, le donne studiano (vedi India e Bangladesh, dove il tasso di alfabetizzazione femminile è il doppio di quello maschile). Insomma, questo mondo che conserva diseguaglianze e problemi, è tuttavia anche frutto dei nostri migliori sogni, per esempio un mondo libero (quasi) dalla fame.

 

Tutto questo è dovuto al Ventesimo secolo. Robert W. Fogel (Nobel per l’Economia) lo chiama il secolo rimarchevole, perché nonostante le due guerre e il genocidio orribile, siamo stati capaci di sconfiggere la fame, le malattie e le carestie.

 

E da allora che noi antropocenisti abbiano dato il nostro meglio. Ma eccoci qua, come l’ossigeno abbiamo fatto fuori migliaia di specie, come carpobrotus edulis volevamo proteggere le dune e invece abbiamo alimentato i topi.

 

La verità? La tanto desiderata e decantata ed esposta, esibita voglia di vivere, produce questo mondo contraddittorio: voglio godermi Sermoneta e Sabaudia (sapeste che passeggiata sulla spiaggia, e sul lungomare fino ad Anzio, un tramonto che rallentava la percezione e di conseguenza il tempo), voglio andare a Latina e immergermi nel razionalismo architettonico e anche in quel un flusso di ragazzi giovani e allegri e non invadenti, e contemporaneamente detesto chi come me vuole fare lo stesso mio percorso: qua ci vuole il limite, dico!

 

 

 

Questa è in piccola scala, figuriamoci in grande. Lì, siamo capaci di imporre le nostre regole a paesi che vogliono (sempre simbolicamente parlando) godersi Sermoneta e Sabaudia esattamente come noi.

 

Per questo ci opponiamo e parliamo di antropocene, però quello degli altri, perché è molto più disturbante del nostro, come i limiti imposti agli altri sono più cool dei nostri – poi finisce che non ci troviamo. Allora come Gaetano diciamo al Robertino di turno, esci fuori, tocca le femmine (simbolicamente parlando, ovvio).

 

Ci sono venute in mente molte riflessioni in questo periodo, alcune molto cupe altre profondissime, ma credo che nessuna resisterà al fascino del prossimo spritz o del Papete che verrà.
Quindi? C’è qualcosa che potremmo conservare? Lo smart work? Alleggerire il carico sulle strade? Per di più, cambiare anche il vecchio, insopportabile modo esercitare i ruoli dirigenziali, cioè quelli che hanno bisogno dei loro uomini, chiusi nella stanza ma vicini? Ma lontano dagli occhi lontano dal cuore? Chi è sempre lontano e magari prende casa a Sermoneta, e nella bella stagione si siede sotto il lauro fiorito e lì lavora (grazie anche a una buona rete), ecco quello non è che poi si allontana dai centri decisionali?

 

E la Dad? Non è che toglie qualche problema organizzativo agli innumerevoli studenti fuori sede, quelli che poi si stipano in postacci, quindi alimentano un mercato immobiliare e fanno salire oltremodo i prezzi degli affitti, rendendo poi le città invivibili o vivibili solo dai benestanti e però, nello stesso tempo, si perde l’esperienza di portare le conserve dal sud e incontrare genti diverse venute da ogni dove?
Per rispondere dovremmo assicurarci una buona dose di biodiversità, come, visto che siamo in zona, il bellissimo giardino di Ninfa, vicino Sermoneta. Un posto incantevole. Biodiversità: ovvero, fonte di riflessione. Ti fa entrare nella dimensione del maggese.

 

Il maggese era una pratica agronomica, si lasciava il terreno a riposo, affinché potesse rigenerarsi. Certo, funzionava, ma si perdeva metà della produzione, quindi il maggese era allo stesso tempo una soluzione e un problema.

 

E tuttavia, proprio per rispondere ai dilemmi dell’antropocene e trovare soluzioni, quello che possiamo conservare della pandemia, è proprio il maggese, a cui siamo stati costretti. Certo, un maggese rinnovato.

 

Cioè, sempre simbolicamente, un luogo dove essere orfani del mondo, per meglio riflettere sul mondo. Non si può trasformare tutto in maggese, ovvio, e nello stesso tempo, perché il maggese possa esistere, ci vuole un’agricoltura che funzioni, e molto bene, che produca cibo buono e sicuro, così che soddisfatti i bisogni primari possiamo riflettere a fondo sui problemi da affrontare.

 

Torniamo alla questione di cui sopra, i nostri gesti producono un effetto ambivalente, ci fanno crescere e stare bene e nello tesso tempo star male. Difficile, prendere l’una o l’altra cosa separatamente.
Però, se creiamo un’agricoltura che funzioni in modo sostenibile: quindi, più prodotto in meno terra, allora possiamo creare più spazi per gli usi naturali e semi-naturali del territorio e insomma creare un giardino a maggese, nel quale passeggiamo, ritroviamo forza, intensifichiamo la visione e l’amore per il mondo (per certi cactus, certi alberi, certi tagli di luce) e poi, cambiato il punto di vista, usciamo pieni di idee, pronti a collaborare col nostro prossimo. Anche lui, poi, è andato in maggese e la pensa come te: vuole salvare il giardino.

 

Il giardino è la quintessenza del nostro impegno, il luogo in cui vediamo meglio e per questo riflettiamo sul mondo, del resto il modo migliore per vivere è abbandonarsi, lasciarsi andare, morire un po’ in un posto lasciato a maggese, simbolicamente, ovvio.
 

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