il foglio del weekend
Trame italiane
Dalla trattativa stato-Fedez con le telefonate registrate alla spy story di Matteo Renzi all’Autogrill. Il romanzo nero dell’Italia è tornato
Gli ingredienti del Grande Romanzo Italiano ci sono tutti. La trattativa Stato-Fedez, le trame occulte, i pentiti che si accusano a vicenda, una parata di video estorti, rimontati, manipolati, un ingorgo di pedinamenti e agguati: Renzi che incontra in gran segreto “un uomo dei servizi” all’Autogrill, Salvini che avrebbe voluto vedere Fedez prima del Concertone (ma perché?). E sullo sfondo il ritorno del “Palazzo”, i dossier avvelenati, le liste coi nomi e coi cognomi, i depistaggi. Non già l’ennesima P2, ma la “loggia Ungheria” che subito rimanda alle nostre vecchie commedie degli equivoci, a quelle pochade che si dicevano appunto, “all’ungherese”, e accendevano le fantasie sfrenate delle signore, “fuggiamo via… andiamo a Budapest!”. Ma anche qui che personaggi incredibili: il rapper miliardario che sfida il “sistema” e manda in tilt la Rai; l’avvocato Piero Amara con studio legale a Roma e Dubai; l’insegnante in sosta sull’A1, area di Fiano Romano, che filma col telefonino Matteo Renzi (una vendetta per la “Buona Scuola”?). Tutto si intreccia, tutto pare tenersi in un unico affresco, come in un album di famiglia. Presentando un’interrogazione sui fatti del Concertone addirittura al Parlamento di Bruxelles, Dino Giarrusso dice di tenere sott’occhio l’Italia e la Rai “come l’Ungheria”. Saranno allora parte dello stesso disegno il video di Fedez al telefono e quelli sbandierati dall’avvocato Amara (“Ho materiale video per dimostrare i rapporti tra persone che pubblicamente negano di conoscersi”)? Ci sarà il “partito degli influencer” o la superlega dei giudici?
Mettendo insieme trame e sottotrame della settimana appena trascorsa (segno indubitabile che pur di non parlare di virus e vaccini ci attacchiamo a tutto) viene fuori davvero un incredibile groviglio di retroscenismo italiano, smascheramenti, gogne, mitomanie, disturbi dell’identità e traiettorie edipiche: RaiTre contro RaiTre, la politica contro la Rai, il Csm contro Davigo. Eravamo rimasti a quella scissione assai pirandelliana di cui fu vittima il povero Massimo D’Alema quando, da presidente del Consiglio, ordinava i bombardamenti in Kosovo ma andava in piazza a manifestare per la pace (era appena nata una tra le più mirabili creazioni del politicamente corretto: la “guerra umanitaria”). Pensavamo che non avremmo mai visto di meglio. E invece ecco i partiti urlare a gran voce “fuori i partiti dalla Rai!”. Ecco lo scandalo della “censura nella tv di Stato”. Ecco la parola “sistema” risuonata come monito, portata in commissione di vigilanza quale prova di affronto inaudito alla libertà di pensiero, brandita per intimorire nella fattispecie uno (Fedez) che con un video qualsiasi fa il triplo degli spettatori delle reti del servizio pubblico messe tutte insieme. Ecco la politica che per tre giorni parla della Rai come cosa di un paese lontano e repressivo, come la Cina, l’Iran, il Bahrein, anziché roba propria. Un habitat sinistro, lottizzato addirittura. D’Alema doveva se non altro tenere insieme le ragioni della Nato e gli ex comunisti. Qui siamo invece al surrealismo più sfrenato. Mario Giordano apre la puntata di “Fuori dal coro” presentandosi in studio con un cartonato gigante del rapper. Gli appoggia la mano sulla spalla. “Caro Fedez, io non sono d’accordo su nulla di quello che dici, ma su un punto hai ragione…” e il punto è ovviamente la “censura”. La parola è sguainata con gran disinvoltura, a destra come a sinistra, secondo la nota inclinazione nazionale all’iperbole, all’esagerazione, al melodramma (il “lavoro” è “sfruttamento”, i trasferimenti al nord degli insegnanti “deportazioni”, e un pastrocchio in puro stile Rai-sindacati una “censura”, e a quanto pare delle più terribili, da riempirci prime pagine e stampa estera). Si confonde, insomma, il “saper stare al mondo”, come dice Aldo Grasso a proposito della telefonata di Fedez, con la privazione della libertà. D’altro canto, se la Rai fosse in grado di censurare qualcosa o qualcuno vorrebbe dire che ha almeno uno straccio di linea editoriale da difendere. Ma chiunque abbia un minimo di confidenza con queste cose, anche solo per sentito dire, sa bene che la catena di comando della Rai è semplicemente incapace di censurare alcunché, se non come effetto differito e dilatato di una serie di errori, inadempienze, incomprensioni, scaricabarile, scollamenti di reparti, appalti esterni.
L’unico “sistema” che si intravede da quarant’anni è quello dello sperpero spropositato di posti di lavoro vecchi e costosi. Guardatevi o riguardatevi la serie “Chernobyl”, trasmessa da poco anche da La7 in chiaro, perché racconta in modo pressoché esemplare come si prendono le decisioni e soprattutto come si gestiscono le emergenze nella Rai. C’è la stessa obsolescenza, la stessa decadenza d’apparato vecchio, stanco, inservibile, come nell’Unione Sovietica di fine anni Ottanta. Un intrico inespugnabile di comitati, agenzie, commissioni e sottocommissioni e corridoi e scrivanie che si moltiplicano e riproducono in un gioco di rifrazioni incontrollabile. Nella serie televisiva, mentre brucia il reattore di “Chernobyl”, vediamo queste riunioni del Politburo completamente scollate dalla realtà della catastrofe. Siamo catapultati non solo nella scena del disastro ma nel cuore della mostruosa elefantiasi ministeriale, fatta di apparati di apparatčik. Vediamo l’incapacità di ricostruire in modo chiaro e rapido come sia potuta accadere una cosa del genere, e in effetti nessuno lo sa. E’ lo stesso con la Rai e con Fedez. L’audizione di Franco Di Mare in Commissione di vigilanza andata in scena mercoledì scorso con tanto di streaming andrebbe studiata, analizzata e tramandata ai posteri, a cominciare da Daniela Santanchè che dice, “non ero ancora nata che qui eravamo già lottizzati”. Si ascolta la telefonata registrata da Fedez. Si ascolta quella registrata dalla Rai. Si cercano le differenze. Si afferma quindi e in modo perentorio che la Rai era all’oscuro di tutto (e te pareva). Non ha chiesto nessun testo. Casomai l’ha chiesto l’ICompany, la società che organizza il concerto del Primo maggio con appalto esterno, in missione per conto dei sindacati. Le scelte editoriali non competono a noi, dice Di Mare. I membri della commissione che intervengono a turno cadono un po’ tutti dalle nuvole e si domandano come mai la Rai appalti così tante produzioni all’esterno. Chissà. Primo Di Nicola (senatore M5s) obietta che Fedez lì non c’è e forse sarebbe il caso di invitarlo, come se non fosse già bastato il Primo maggio. Ma la soluzione a tutto il gran pastrocchio è a portata di mano. Ed è un colpo di genio. Se la telefonata è stata rimontata e manipolata ad arte da Fedez bisognava andare in procura subito, sporgere denuncia contro il rapper. E una volta lì, con l’occasione, costituirsi per il video furfante e il montaggio birichino mandati in onda nella puntata di “Report” su Renzi. Fare luce quindi su quei quaranta minuti di “problemi intestinali” del papà dell’insegnante chiuso nella toilette dell’Autogrill che hanno permesso alla professoressa democratica e spettatrice indefessa di RaiTre e di “Report” di filmare tutta la conversazione tra Renzi e Mancini. Ma certo è soprattutto intorno ai gravi fatti del Concertone che si è squadernata una formidabile “sintomatologia dell’isterismo italiano”, come diceva Italo Calvino parlando d’altro. Lo “sto con Fedez” secco, fermo e risoluto di Giuseppe Conte, gli endorsement appassionati del Fatto e di Repubblica, di Letta, di Bettini o di Angelo Guglielmi, guru di RaiTre che non vede più la tv dal ’94 e dice, “credo in lui e nel suo libero canto”. Alé. Si cerca il nuovo Saviano, che all’epoca era il nuovo Pasolini, e si arriva all’“Io so” di Fedez, con la variante “e ho anche le telefonate registrate”. Anni e anni di cultura dell’intercettazione e reportage delle “Iene” si saldano finalmente alla Instagram generation “in una domenica di irresistibile, inconsapevole, unanime grillismo” (copyright Mattia Feltri).
La nostra borghesia intellettuale a lungo schizzinosa e infastidita dai Ferragnez per quel cumulo di disvalori, soldi, griffe, lusso anche molto pacchiano e fiera incapacità di capire che tipo di lavoro facesse lei, corre in soccorso dell’influencer. Si congratula per il gesto sovversivo e coraggioso. Loro, d’altro canto, cioè i Ferragnez, non sono più quelli di prima. Sembrano anzi lontanissimi i tempi in cui si tiravano la lattuga addosso nel supermercato preso in affitto e addobbato a festa. Sembrano lontanissime le polemiche con la blacklist dei rider per le mance micragnose (ma lì un’avvisaglia c’era stata, con la replica di Fedez che diceva, “cari miei, la lotta di classe è altro”, evidentemente stava già studiando).
Ma c’è anche l’assurdità di quelli che si scagliano contro la “dittatura del politicamente corretto” (in Italia), quelli che “nel concerto del Primo maggio non si deve fare politica” e poi obiettano a Fedez che non può mica andare sul palco e parlare “senza contraddittorio”. Come se i Rolling Stones tra una strofa e l’altra di “Sympathy for the Devil” fossero tenuti a farsi il segno della croce per par condicio. La storia di Fedez è infondo sempre la stessa. Casomai acuita in questo caso dal fatto che il personaggio è spesso raccontato dai media come “il marito di”, e per giunta con una mamma-manager assai ingombrante che gestisce gli affari e paga i conti. C’è tutto: crisi della mascolinità, arresto della crescita, molto Edipo, e parecchio Alberto Sordi anni Cinquanta, in quei film in cui era sempre ostaggio di madri e mogli più forti e risolute di lui. Che fare dunque per uscire allo scoperto e farsi notare un po’?
Il protocollo italiano è sempre quello. Intestarsi almeno una battaglia civile (ovviamente solo quelle giuste), tra il secondo e il terzo o quarto disco/film/libro di successo, come tappa obbligata della propria “crescita artistica”. Poi a ruota chiedere scusa per le cose raccontate/cantate nei dischi/film/libri precedenti. “Ho sbagliato a dire cose omofobe in passato”, confessa adesso Fedez rievocando battutacce da bagaglino su Tiziano Ferro. “Ero giovane. Oggi sono cambiato, ho anche invitato una trans nel mio podcast” (evoluzione digitale di “ho molti amici gay”). Ecco il demone dell’impegno, la vertigine della denuncia. Quando vendere dischi, collezionare milioni di visualizzazioni, fare beneficenza, vincere l’Ambrogino d’oro non basta più, si fa strada il bisogno di riconoscimento. Anche perché nessun giornale si sarebbe mai filato Fedez per questioni strettamente “artistiche”. Le denunce poi non sono tutte uguali. Ci vuole il contesto giusto, tutta una liturgia specifica (Sanremo, il concertone di Piazza San Giovanni vanno bene, un qualche Festivalbar no, anche perché lì gli sponsor si incazzano sul serio). Eppure, volendo alzare una volta tanto l’asticella, ci saremmo trovati tra le mani un bel tema. Non tanto quello ormai trito e ritrito dei social che guardano dall’alto in basso la televisione. Bensì quello della formidabile giravolta del Primo maggio da festa dei diritti dei lavoratori a festa dei diritti civili ed emblema di una nuova primavera “gender fluid”.
Qui c’è, per dire, tutta la parabola della sinistra teorizzata da Augusto Del Noce già nei primi anni Settanta. C’è l’irrimediabile trasformazione del Pci in partito neoborghese, certo, ma soprattutto la sostituzione della religione del lavoro con la teologia della liberazione sessuale, un passaggio epocale che a Del Noce stava assai a cuore. Il progetto di una sinistra che in futuro avrebbe esercitato un’attrattiva solo su quei temi, e di una società il cui nucleo morale sarebbe stato un giorno tutto racchiuso nel desiderio, nella reinvenzione della propria identità sessuale, eccetera. Certo, sarebbe stato chiedere troppo. Solo che a conti fatti non si è parlato granché neanche nel Ddl Zan. La disoccupazione, la sicurezza sul lavoro, l’unità sindacale hanno ceduto il posto all’omotransfobia che a sua volta ha subito innescato uno stralunato, ubriaco dibattito sulla lottizzazione della Rai, sulla “censura” degli artisti, sulla Lamborghini di Fedez. Ritenuta però subito inadeguata per buttare giù “il sistema”.