uffa!
Le "Tante care cose" che nobilitano i nostri gesti nella vita di tutti i giorni
Dalla moka alla Vespa fino alla Juicy Salif. Unici e rivoluzionari, non importa quanto siano utili questi oggetti, ma quanto ci siano cari. Un libro di Chiara Alessi
Appena ne ho intravisto il titolo e sottotitolo, Tante care cose. Gli oggetti che ci hanno cambiato la vita, ho voluto scrivere del libro di Chiara Alessi (una che viene da due famiglie peculiarissime nella storia degli “oggetti” italiani, la Bialetti e la Alessi). A partire da quel che avevo letto molti anni fa in un libro dell’architetto e designer fiorentino Andrea Branzi. E cioè che nella famiglia media italiana di inizio Novecento gli oggetti di uso corrente erano circa duecento, in quella di fine secolo erano divenuti circa 2.000. E senza dire che Brandi scriveva di questo argomento prima dell’avvento di un oggetto che ne vale dieci, il telefonino cellulare, uno strumento che è assieme un telefono, un computer, un bloc-notes, un dizionario, una chiave che apre tutte le porte del sapere e della memoria. Che cos’altro c’è di più marchiante nelle giornate di tutti noi se non gli oggetti di cui ci circondiamo?
Sto scrivendo seduto su una sedia di quelle che Giuseppe Terragni aveva ideato per la Casa del Fascio di Como, la scrivania me l’ha disegnata il maestro Mario Bellini, ho innanzi agli occhi l’imponente schermo di un computer della Apple, il posacenere a portata di mano è una ceramica anni Sessanta della Gabbianelli, la penna stilografica e la custodia che la regge è di Ettore Sottsass, i contenitori portadocumenti sulla scrivania sono di Enzo Mari, la scatola in ceramica bianca che bissa la silhouette di Villa Malaparte a Capri l’hanno ideata i due giovani designer di LATOxLATO. A nessuno di questi oggetti rinuncerei neppure sotto tortura. Non importa quanto siano belle quelle “cose”, importa quanto mi siano “care”. Importa che ne siano nobilitati i miei gesti nella vita di tutti i giorni.
Chiedo venia alla Alessi per avere rubato spazio al risalto che merita il suo libro. Che è innanzitutto una storia affascinantissima – ricca di nomi, cognomi, date – dell’inventività italiana novecentesca per come si è esercitata sugli oggetti e sui comportamenti quotidiani di milioni e milioni di persone, comportamenti che da quei particolari oggetti che non esistevano prima sono stati rivoluzionati. La caffettiera Moka inventata dal bisnonno della Alessi, le scarpe da tennis Superga che prendono il nome di una basilica torinese, la Fiat 500 progettata da Dante Giacosa che permise agli italiani di andare finalmente in giro a scoprire le bellezze del nostro paese, la spillatrice Zenith 548 nata nel 1948 e di cui a tutt’oggi non c’è tavolo di studio professionale italiano su cui non ce ne sia una, la Vespa Piaggio di Corradino D’Ascanio su cui girovagavano per Roma Gregory Peck e Audrey Hepburn ai tempi di “Vacanze romane”, la lavabiancheria Candy di cui nel 1947 le Officine Meccaniche Eden Fumagalli ne producevano una al giorno e più tardi una ogni quindici secondi, la radio 547 Phonola del 1940 di Luigi Caccia Dominioni e dei fratelli Castiglioni ed era la prima volta che la radio costituiva un oggetto a sé da mettere dove volevi, e non più la parte camuffata del “mobile radio” di cui ancora si ricordano quelli che hanno la mia veneranda età.
Geniali quanto alla loro funzione e perciò bellissimi non erano soltanto gli oggetti in quanto tali. Lo era l’intero apparato della comunicazione che li promuoveva fino a renderli familiari e indispensabili al grosso pubblico. Il logo fortunatissimo delle catena di supermercati Esselunga lo disegna nel 1957 il grafico Max Huber. E siccome è venuto il tempo di non vendere più la pasta sfusa e dopo averla ogni volta pesata, ecco che a metà degli anni Cinquanta Erberto Carboni si inventa il packaging in cui la Barilla viene venduta mezzo chilo a botta, una confezione che Pietro Barilla aveva scoperto durante un suo viaggio in America nel 1950. Il celeberrimo logo Eni con il cane a sei zampe disegnato nel 1952 da Luigi Broggini manda in bestia Fortunato Depero, il cui bozzetto non era stato approvato dalla giuria, tanto da fargli dire che il primo premio era “buono per un’insegna da osteria”. A dare la loro speciale fisionomia agli stand e alle vetrine del grande magazzino più famoso d’Italia, la Rinascente, concorre il fior fiore dei designer milanesi, da Gio Ponti ad Albe Steiner, da Franco Albini a Bruno Munari. Lo ha detto una volta come meglio non si potrebbe Vico Magistretti: “Industria e designer sono come pane e marmellata: hanno bisogno uno dell’altra”. E’ il grande Albe Steiner quello che nel 1954 si inventa il nome e la grafica del Compasso d’Oro, quello che diventerà il premio di design più importante al mondo e la cui storia farà da asse portante del nascituro Design Museum diretto da Andrea Cancellato che inaugurerà il prossimo 25 maggio a Milano.
Di storie avvincenti che abbinano oggetti e i loro creatori il libro della Alessi è zeppo. Ne potrei riempire un paio di paginate del Foglio. Su tutte una che riguarda l’azienda di suo padre Alberto. Il quale aveva commissionato il progetto di un vassoio in acciaio al designer francese Philippe Starck, che se ne stava in un ristorante di Caprera a rimuginarci su. Su una tovaglia (adesso conservata al museo Alessi) aveva preso a disegnare quel che gli veniva, senza avere una precisa coscienza di quello che stava disegnando. Dopo di che mandò la tovaglia e il relativo disegno ad Alessi padre, dicendogli che di certo non se ne poteva trarre un vassoio ma qualche altra destinazione forse sì. Alla Alessi se lo guardano per bene, e pensano di trarne uno spremiagrumi, quello che diverrà il celeberrimo Juicy Salif prodotto da Alessi nel 1990, uno degli oggetti di design più iconici della fine del secolo. Non è che da spremiagrumi funzionasse un gran che, obiettò qualcuno. E che importa per un oggetto talmente bello? Io l’ho comprato, l’ho usato un paio di volte e poi l’ho messo in una bacheca. Guai a chi me lo tocca.
Abituati alla tragedia