lo spunto
Cara Ciabatti, non c'è mai stata epoca migliore per essere donne
"C'è qualcosa che continua a spaventare nell'essere femmina", dice la scrittrice. Ma questa problematizzazione continua dell'essere donna non convince più
Un’intervista di Stefania Miretti a Teresa Ciabatti, scrittrice, sulla Stampa di domenica, s’intitolava “Diventare femmine, questo è il problema”. Se femmina si nasca o si diventi è una vexata quaestio, che siamo prossimi ad assodare di poter risolvere ognuna da sé: ciascuno può decidere se femmina ci è nata o diventata, il che porta a vantaggi e svantaggi, anch’essi soggettivi. Come che sia, sul punto, una magnifica Simone De Beauvoir rendeva giustizia alla complessità scrivendo, nelle prime pagine del “Secondo sesso”: “La presenza nel mondo implica a rigore il porsi di un corpo che sia contemporaneamente una cosa del mondo e un punto di vista sul mondo”. Ma vuoi mettere con “il diritto a essere sé stessi”: molto più chiaro, no?
Ciò premesso, e ci scusiamo per la deviazione, ciò che viene da pensare leggendo quel titolo è una cosa che, in una lettera a Virginia Woolf, il suo amico Giles Lytton Strachey le scrive dopo averle raccontato di essere chiuso in casa per via di un odioso raffreddore, averle detto che la invidia perché lei è in Cornovaglia tra le ginestre e il mare e la luce, e lui, invece, dalla finestra non vede che pioggia e nebbia. E’ il 1908. Le dice che gli mancano le avventure e che l’ultima lettera di lei, per lui, è stata un’avventura. Le chiede: e tu, ne vorresti? Ti basta l’Atlantico? Decontestualizziamo, portiamo questa domanda nel nostro tempo, sulla bocca di un tale con cui siamo a cena e che (fatemi sognare), siccome è un uomo di spirito, ti dice dopo averti chiesto se vuoi un altro dolce dopo il dolce: ti basta l’Atlantico? Gli rispondi, come risponderebbe una qualsiasi tua amica: no.
La differenza tra una donna di oggi e una donna del 1908 è che se a una donna di oggi non basta l’Atlantico, quella donna può andare nel Pacifico: lei non avrebbe potuto. E di certo, oggi, le possibilità che abbiamo di farci bastare l’Atlantico, ovverosia le possibilità di desiderare, avere degli obiettivi e realizzarli, senza che l’essere donne si ponga come ostacolo, sono cresciute in un modo vasto e, soprattutto, profondo. Più delle chance, delle opportunità che non sono ancora pari, delle rappresentazioni più o meno congrue, più o meno sottodimensionate, più dei diritti, dei doveri, del potere, più di tutto quello che stiamo discutendo adesso, ci interessa come ci sentiamo, come possiamo reagire, cosa possiamo fare, immaginare, esprimere.
Non è più convincente questa problematizzazione continua dell’essere donna, perché porta sempre un segno negativo. Il problema dell’essere donna: mai la sfida. Mai l’avventura. E terrorizza questo accentare sempre e solo il trauma, la parola indelebile, il passato mortificante, la censura, l’abuso, la mortificazione. Dice Ciabatti alla Stampa, parlando del suo “Sembrava bellezza” (Mondadori): “C’è qualcosa che continua a spaventare, nell’essere femmina”. Si fa fatica a crederci. Non si riesce a immaginare nessuna bambina occidentale che, scoprendosi femmina, si spaventi. Viene da immaginare, invece, e viene quasi da vederli anche, degli adulti che confondono la paura con il mistero, e che vogliono porsi come solutori anziché come accompagnatori. E viene da immaginare una bambina che, quando un suo compagno di scuola le dice che è grassa, sia troppo impegnata a immaginarsi sul Pacifico, rapita dal suo sogno che sa già benissimo come trasformare in obiettivo, per riuscire a sentirlo: lei sente soltanto le onde. Dovremmo forse cominciare a raccontare anche che essere donne non è mai stato più bello di adesso. E sempre così sarà: bello e difficile. Non problematico: difficile.
Abituati alla tragedia