Il bello di uscire per entrare, finalmente, e sedersi in un bar o un ristorante
Da ieri possiamo uscire di nuovo per andare a stare al chiuso, dopo che per mesi lo abbiamo desiderato provando nostalgia degli interni. Che splendida bizzarria
Il bello di uscire, da ieri, è entrare. Anche a Roma, soprattutto a Roma, dove si pranza all’aperto sempre, pure quando piove e tutti, ammesso che se ne accorgano, come dice Fran Lebowitz, danno la colpa a Milano, e dopo aver dato la colpa a Milano, comunque restano fuori, aprono un ombrello, un gazebo, una sportina, e mangiano sotto il diluvio, inamovibili. Così, almeno, era nel colpo di coda del Novecento, gli anni Venti prima della pandemia.
Ora è diverso, abbiamo nostalgia degli interni, dei tavolini riparati, inquattati, vogliamo accarezzare la tappezzeria, coccolare le pareti, sederci sui divanetti e non sugli sgabelli, sederci bene, a lungo, moltissimo. Non dobbiamo più bere il cappuccino dopo averlo zuccherato in strada, su un banchetto pieno delle briciole degli altri e ogni tanto di piccioni, disperdendoci a passo accelerato per ordine di una barista incappucciata e molto stizzita già alle sette e venticinque del mattino, una che ci dà del loro anche se siamo evidentemente cisgender – dice: i signori non stazionino davanti al bar, gentilmente.
Non dobbiamo scegliere se ustionarci la gola bevendo il cappuccino di fretta di modo da non ustionarci le mani, o viceversa – e dire che eravamo un paese dove per avere un cappuccino non caldo ma almeno tiepido era necessario piangere in greco ed essere molto molto amici del barista. Possiamo entrare. Fermarci. Bere al banco. Sederci dentro. Ieri mattina Roma era quasi spettrale, senza più le file del fai da te davanti ai bar, ai ristoranti, ai supermercati, senza più nessuno in piedi, senza più il popolo di appena operati per ciste sacro coccigea che eravamo diventati, sapete quei poveretti che non possono sedersi per settimane prima che la ferita si rimargini, e allora mangiano in casa con il piatto appoggiato sul davanzale della finestra o sul frigorifero, poveretti, poveretti.
Siamo stati come loro, e come i revenant in quella serie tv di semimorti che tornano a casa loro dopo essere semimorti e sono sempre in piedi, e abbiamo guardato con cupidigia i tavolini dentro, e le poltrone e le sedie spaiate in ferro battuto con sopra comodissimi cuscini boho chic, legate tra loro dai nastri bianco rossi o nero gialli, quelli delle crime scene americane, di modo che nessuno di noi psicopatici potesse prenderne una a sedercisi sopra e infestare l’aria del bar con il suo respiro virulento.
La stessa virago che fino a due giorni fa ci distanziava apostrofandoci con parole argute, ora ci chiede: fuori o dentro? “Dentro! Dentro!”, le diciamo, come stessimo dando il via libera al sesso procreativo, libere e liberate dal peso dei giorni, della trasmissione, disponibili a tutto, quasi quasi pure a un figlio. Ci sediamo a un minuscolo tavolino scomodo, guardiamo fuori, pensiamo a Katherine Mansfield che quando si ammalò di tubercolosi dovette starsene chiusa in casa e in ospedale per mesi e mesi, sentendo una mancanza folle di tutti quelli che, quando andava al bar, osservava pensando: “Bisognerebbe odiare l’umanità in massa, odiarla appassionatamente, come appassionatamente si amano quei pochissimi”. Per tutti questi mesi non ci siamo amati e non ci siamo odiati, non ne avevamo il tempo, eravamo uomini e donne in fuga – dall’ustione, dal contagio, dai no mask – e non potevamo origliare, spiarci, ficcanasare stando in piedi o seduti a sette tavoli di distanza sul ciglio della Colombo. Ora ci hanno ridato il dentro, il sorriso dentro al pianto di questo tempo di mezzo in fondo ancora un po’ plumbeo, anche se vittorioso, e, dopo mesi di clausura, la prima libertà completa che ci viene concessa è uscire per entrare al ristorante, e restarci dentro. Magari andremo al cuore delle cose.
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