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L'Ungheria, da culla delle conquiste omosessuali a terra di discriminazione
Lo scrittore ungherese Karl-Maria Kertbeny usò per la prima volta nel 1868 la parola "omosessuale". La conquista del nome fu il primo passo per affermare il proprio diritto. Oggi invece il Parlamento approva una legge considerata discriminatoria verso i gay
L’Ungheria è il paese più omofobo d’Europa, ma anche quello dove la parola omosessualità è nata. Mentre in Italia si discute ancora del ddl Zan, il Parlamento ungherese ha votato una legge che gli omosessuali vieta addirittura di mostrarli. Il primo passo per reprimere una minoranza è negare che esista e nasconderla, come ha fatto nel 2013 la legge anti lgbt+ di Putin e, molto prima, il fascismo quando decise di non istituire uno specifico reato legato all’omosessualità per non ammettere che c’erano anche pederasti italiani, non soltanto inglesi o francesi. La legge ungherese è stata approvata con 157 voti a favore e un solo contrario martedì 15 giugno, nello stesso giorno in cui la Nazionale ungherese, sconfitta 3-0 dal Portogallo, salutava con la mano sul cuore il muro di tifosi in camicia nera assiepati nella Puskás Aréna, lo stadio di Budapest riempito da Viktor Orbán come se il Covid lì non esistesse (in mancanza di dati ufficiali si legge che l’Ungheria sarebbe il secondo paese al mondo dopo il Perù per numero di morti in rapporto alla popolazione).
In apparenza la legge anti lgbt+ promossa da Fidesz, il partito di Orbán conteso da Salvini e Meloni per il gruppo europeo, non reprime i comportamenti omosessuali. Vieta di mostrarli. Vieta, cioè, la “promozione dell’omosessualità” tra i minori. “Al fine di garantire la protezione dei diritti dei bambini la pornografia e i contenuti che raffigurano la sessualità fine a se stessa o che promuovono la deviazione dall’identità di genere, il cambiamento di genere e l’omosessualità non devono essere messi a disposizione delle persone di età inferiore ai diciotto anni”. Il divieto non è limitato alle scuole, alle materie di studio e ai sussidiari, ma si allarga ai film e alle pubblicità che, se parlano di persone gay e transgender, potranno essere trasmesse solo in orari protetti o con la scritta vietato ai minori. Nel provvedimento rientrerebbero anche film e serie tv come “Harry Potter”, “Billy Elliot” o “Friends”, ma il nostro consiglio a guardarsi le spalle si estende anche a Timon e Pumba de “Il re leone”.
L’aspetto più triste e paradossale della questione è che tra le molte e luminose personalità che l’Ungheria ha donato alla cultura europea e mondiale – Franz Liszt, Béla Bartók, Béla Lugosi, Zsa Zsa Gabor, László Bíró, Ágota Kristóf, Magda Szabó, Imre Kertész, Ferenc Molnár, Ferenc Puskás, Nándor Hidegkuti, Imre Nagy e Georg Soros – ci si dimentica spesso di Karl-Maria Kertbeny (o Benkert), cioè dell’uomo che inventò la parola “omosessuale”, il concetto che ancora oggi, a centocinquantatré anni di distanza, ci sforziamo di proteggere o di discriminare. Era il 1868: lo scrittore e libraio ungherese (ma era nato a Vienna nel 1824) Karl-Maria Alexandru Kertbeny mandò una lettera aperta al ministro della Giustizia della Prussia, Adolf Leonhardt, per modificare il paragrafo § 143 del Codice prussiano che puniva “gli atti contro natura”. La tesi di Kertbeny era che lo stato non aveva il diritto di legiferare sui comportamenti sessuali dei sudditi.
Nella lettera, per la prima volta, si distingueva tra “monosessualità” (masturbazione), “omosessualità” ed “eterosessualità”, parole che fino ad allora non esistevano. Nel 1869 Kertbeny pubblicò le sue argomentazioni in un pamphlet intitolato “§ 143 des Preussischen Strafgesetzbuches vom 14. April 1851 und seine Aufrechterhaltung als § 152 im Entwurfe eines Strafgesetzbuches für den Norddeutschen Bund. Offene, fachwissenschaftliche Zuschrift an seine Excellenz Herrn Dr. Leonhardt, königl. preußischen Staats- und Justizminister”. Ma forse anche a causa della macchinosità del titolo, il paragrafo fu mantenuto (per i pamphlet, date retta, meglio titoli dritti). Una sessantina di anni più tardi il nazismo avrebbe usato lo stesso paragrafo – modificandone il numero in § 175 – per mandare gli omosessuali a morire nei campi di concentramento.
Fu un altro attivista gay delle origini, lo scrittore tedesco Karl Heinrich Ulrichs, ad attribuire a Kertbeny l’invenzione del termine che stava conquistando l’egemonia anche a discapito delle proposte dello stesso Ulrichs: “urningo”, cioè “uranita”, per gli omosessuali maschi, “urninds” per le lesbiche, “uranodionings” per i bisessuali, e “zwitter” per gli ermafroditi. A differenza di Kertbeny, Ulrichs era dichiaratamente omosessuale – fu probabilmente il primo a fare un coming out nel 1862 – e convinto dell’esistenza di un terzo sesso, distinto dal maschile e dal femminile. Erano gli anni in cui l’omosessualità era “The love that dare not speak its name”, “l’amore che non osa dire il proprio nome”, come scrisse nel poema “Two loves” Lord Alfred Douglas, l’amore per cui Oscar Wilde finì in prigione. La conquista di un nome fu, quindi, il primo passo per la rivendicazione dell’esistenza. Per affermare il proprio diritto a esistere. A ripensarci oggi, però, in un tempo in cui i nomi si moltiplicano e gli acronimi si allungano nel tentativo di definire ogni gusto e inclinazione, viene il dubbio che questa conquista comportò anche lo slittamento dall’atto alla natura, dalla definizione di comportamenti sbagliati secondo la morale corrente a quella di nature distinte o distorte in base al loro modo di amare.