Le conseguenze demografiche del Covid

Luciano Capone

A causa della pandemia gli italiani saranno di meno, più vecchi e più poveri. La Banca d'Italia stima un calo aggiuntivo della popolazione attiva tra 1,6 e 3,4 milioni nel 2065 e una perdita aggiuntiva del pil tra il 4 e il 16%. Crescita economica e demografica sono una doppia emergenza nazionale

Solo qualche mese fa l’Istat pubblicava un report sull’impatto del Covid-19 sulla struttura demografica del paese. I dati erano, ovviamente, molto negativi: a dicembre 2020 la popolazione residente si è ridotta di 384 mila unità rispetto all’anno prima (“come se fosse sparita una città grande quanto Firenze”); si è accentuato il declino di popolazione in atto dal 2015; si è registrato il minimo storico di nascite dall’unità d’Italia (16 mila in meno rispetto al 2019: -3,8 per cento); il massimo storico di decessi dal secondo dopoguerra (112 mila in più rispetto al 2019: +17,6 per cento) e un crollo dei movimenti migratori. Adesso l’Italia sta uscendo progressivamente dall’emergenza attraverso le vaccinazioni, nella speranza che il problema sia definitivamente alle spalle, ma la pandemia avrà ricadute negative sulla dinamica della popolazione italiana anche nel medio e lungo termine.

 

Di questa specie di “long Covid” demografico si è occupato uno studio appena pubblicato della Banca d’Italia dal titolo: “Alcune valutazioni sul probabile impatto demografico della crisi Covid-19”. Gli autori Giacomo Caracciolo, Salvatore Lo Bello e Dario Pellegrino scrivono che rispetto alle pandemie del passato, il Covid non ha modificato molto la composizione demografica italiana, dato che la mortalità è stata concentrata soprattutto sulla fascia d’età non feconda (over 65): il tasso di dipendenza degli anziani (rapporto tra popolazione inattiva e attiva) è infatti diminuito di appena 0,2 punti. Gli effetti demografici della pandemia non saranno quindi quelli diretti, ma saranno il prodotto del peggioramento delle condizioni economiche che potrebbero avere un impatto, naturalmente negativo, sia sulla natalità sia sull’immigrazione.

 

Il calo dei redditi, l’aumento della disoccupazione e la maggiore incertezza sul futuro sono forze che inevitabilmente spingeranno verso il basso il tasso di natalità “accelerando ulteriormente il declino demografico in atto dal 2015”. Allo stesso modo, il deterioramento del quadro economia e l’incertezza sul fronte del lavoro renderanno il nostro paese meno attrattivo agli immigrati. Se questa può sembrare una buona notizia per chi ritiene l’immigrazione un’emergenza o comunque un fenomeno negativo, bisogna considerare che, come si ricorda nello studio, è stato “il principale canale di aggiustamento demografico che dal 2000 ha compensato parzialmente le mancate nascite, rimandando di fatto di un decennio l’inizio del declino della popolazione italiana”.

 

A causa della crisi economica gli italiani faranno meno figli e in Italia verranno meno persone che facevano più figli. E così secondo le stime dei ricercatori della Banca d’Italia, nel triennio 2020-2023 il “tasso di natalità per donna in età feconda raggiungerebbe il minimo storico, attestandosi su livelli inferiori ai 39 nati all’anno per 1.000 donne. Mentre il tasso migratorio netto “scenderebbe a un livello medio di circa lo 0,5 per mille, toccando i valori minimi di 0,3 per mille tra il 2022 e il 2023”. Insomma, il problema potrebbe essere che arriveranno pochi immigrati. O meglio, la riduzione dell’immigrazione sarebbe il segnale di un problema serio di competitività e attrattività del nostro paese.

 

Il combinato disposto, come si diceva per le riforme costituzionali, della riduzione delle nascite e dell’immigrazione produrrebbe nel medio termine “una contrazione aggiuntiva della popolazione 15-64 di circa 1,3 milioni nel 2040 e tra 1,6 e 3,4 milioni nel 2065”, con l’ effetto negativo del calo dell’immigrazione sulla popolazione in età lavorativa che sarebbe immediato mentre quello dovuto al calo della natalità si produrrebbe i suoi effetti a partire dal 2035. C’è da considerare che parliamo di un effetto aggiuntivo rispetto a uno scenario dell’Istat che già prevede un calo della popolazione di circa 9 milioni di unità nel 2065.  Chi dovesse ritenere che “meno siamo, meglio stiamo” farebbe un grosso errore. Perché le conseguenze sulla ricchezza, e quindi e sul benessere, possono essere rilevanti: in base a diversi scenari, rispetto alle simulazioni demografiche per-Covid dell’Istat, viene stimata nel 2065 una perdita di pil tra i 4 e i 16 punti percentuali e una riduzione del pil pro capite tra 1 e 2 punti percentuali.

 

Ci saranno meno italiani e saranno più vecchi e più poveri. Il Covid ha aggravato una crisi strutturale in atto già da qualche decennio. Naturalmente non c’è nulla di inevitabile, ma per invertire questo inarrestabile declino è necessario un importante sostegno alla crescita economica e demografica: maggiore partecipazione al lavoro, politiche per favorire la natalità e più immigrazione sostenibile. Con il Pnrr appena approvato ora le risorse ci sono e se il nome che Mario Draghi gli ha dato è “Italia domani”, quello demografico dovrebbe essere il problema principale da affrontare.

 

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  • Luciano Capone
  • Cresciuto in Irpinia, a Savignano. Studi a Milano, Università Cattolica. Liberista per formazione, giornalista per deformazione. Al Foglio prima come lettore, poi collaboratore, infine redattore. Mi occupo principalmente di economia, ma anche di politica, inchieste, cultura, varie ed eventuali