Dalla crisi di genere al dominio del monogenere non riproduttivo

Eugenio Mazzarella

Negare le differenze in quanto differenze fa evaporare il Sapiens in puro e semplice spettro di quel che è bio-socialmente stato fin qui. E si capisce, allora, l'inverno demografico

Nel Pnrr, c’è un meritorio interesse per la madre di tutte le battaglie per il futuro dell’Italia: quella contro l’inverno demografico, il crollo dell’indice di natalità per donna all’1,27. Ma questa madre di tutte le battaglie non si vincerà se non tornerà in auge nel dibattito pubblico, come fatto di cultura di massa da ripensare (e da proteggere), l’identità di genere della donna nel suo sostanziale, di quell’identità concostitutivo, carattere generativo; e però non in senso neutro, e agli effetti sociali da “neutralizzare” ai fini dell’autorealizzazione della donna, ma materno.

 

Che non c’è vera emancipazione della donna, se in questa emancipazione la sua identità di genere non conservi questo determinante tratto materno-generativo. Non so quanto ci si renda conto che l’invocata “parità di genere” – il sacrosanto diritto delle donne a non patire discriminazione sociale di sorta come pari opportunità di accesso e di sostenibilità ai ruoli e alle funzioni sociali – sia per tanti aspetti tracimato dalla sua nativa e fondamentale istanza emancipativa in una “crisi di genere”, come crisi del genere femminile; e di conseguenza del concetto di genere, e del genere, in quanto tale.

 

E’ la grande menzogna dell’identità di genere come la sta interpretando la nostra società. Che sta portando alla fine dell’identità di genere in senso proprio tramite politiche monogeneriche, che denegano la differenza di genere in quanto differenza, e come tale socialmente complementare sulla base dell’infrastrutturazione biosociale del Sapiens; modellandone la pretesa emancipazione di genere sul genere “maschile”. Genere socialmente specializzato, nella differenziazione sociale, non sulle pratiche di cura ma sulla capacità performativa in termini di produttività economica. Questa menzogna sociale si serve di una distorsione operativa degli obiettivi della “parità di genere”, declinati come “pari opportunità” di accesso ai ruoli sociali, tutti da tutti interpretabili in modo indifferenziato.

 

In sostanza pari opportunità da garantire alla parità di genere, in questa esiziale distorsione, viene a significare eguaglianza dei compiti e dei ruoli sociali e eguaglianza nella loro accessibilità. Il che si traduce nel fatto che le pari opportunità cui ambire, e da tutelare socialmente, non sono quelle di realizzare il proprio genere – in concreto il genere femminile nelle sue specificità, innanzi tutto di generatività e di cura – ma il genere unico richiesto da un mercato del lavoro che grazie alle tecnologie può far fare tutto a tutti in modo indifferenziato. Ma così, tramite l’eguaglianza da perseguire dei ruoli e dei compiti sociali accessibili ad ognuno, quale che sia la sua identità di genere, si mira all’equalizzazione dei generi; che, nati complementari – o differenziatisi bio-socialmente in senso complementare –, sono spinti ad essere un solo genere, indifferentemente impiegabile in ogni ruolo e ad ogni scopo sociale economico produttivo, senza “elettività” naturale a questo o a quel ruolo o scopo.

 

I punti di resistenza a questa standardizzazione del genere in senso mono o unigenerico, e cioè la riproduzione e la sessualità, nella loro differenziazione sono aggirati “sgravando” il genere femminile dalla sua specifica genitorialità di cura spalmandola, con gli stessi compiti, sulla coppia, in nome dell’eguaglianza indifferenziata di genere. Quando questo “sgravio emancipativo” non sia sic et simpliciter l’erosione della funzione riproduttiva fino alla messa in crisi come interiorizzazione sociale della cultura della maternità. In questo senso lavorano l’affrancamento dell’identità di genere dalle attribuzioni di ruolo tradizionali e il disincanto che ne ha investito l’orizzonte valoriale di riferimento, agiti nei termini del controllo sociale richiesto da una società interessata alla neutralizzazione economico-produttiva delle differenze di genere, tramite il confinamento dell’identità di genere alla pura sfera sessuale. Dove al monogenere sociale è lasciata la libertà di scegliersi il suo genere solo a letto, anche con tutte le varianti e le soluzioni di continuità richieste alla disforia tra identità di genere, e identità e orientamento sessuale. Un processo dove c’è da chiedersi cosa resti – quale che sia il suo genere “naturale” (‘uomo’, ‘donna’, ‘omosessuale’) – del genere Sapiens evaporato che sia nello “spettro di genere” a puro e semplice spettro di quel che è bio-socialmente fin qui stato il genere “in natura”. E se questo campo di concentramento sessuale del genere non ne sia un vero e proprio campo di sterminio.

 

Eugenio Mazzarella
docente di Filosofia teoretica
Università Federico II di Napoli

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