Il bello, il brutto e la cattiva ossessione antidiscriminatoria
Il New York Times contro il lookism. Livellare, omologare, includere è un’attività buona quando si tratti di superare ingiustizie e diseguaglianze di diritto e di fatto, ma entro certi limiti. Poi diventa ridicola
L’alzata d’ingegno del New York Times contro il lookism è rivelatrice di un significativo vizietto contemporaneo. Lasciamo stare la parte sociologica: dicono che i brutti sono vittime del lookism, cioè di una predisposizione verso il bello che interdice loro eguali risultati professionali e di vita rispetto a chi è meglio piazzato nella classificazione estetica. Chi è brutto perde reddito, lavoro qualificato, opportunità, sostiene David Brooks, che ogni tanto indulge alla bufala opinionistica di mercato, sulla scorta di pensose ricerche analitiche, gli ugly data, diciamo. Chi è brutto perde punti, è vittima di una disparità generata dal culto dell’attrazione e del piacere percettivo, insomma è un discriminato.
Il vizietto sta nel pensare che per ridurre quanto si possa la discriminazione in senso giuridico, l’esclusione da diritti generali, da un’idea di giustizia per tutti, si debba rinunciare a giudicare.
Chi sono io per giudicare? lanciò il Papa buono e inclusivo su un aereo che veniva da Rio de Janeiro. Eppure il gesuita bianco è un teorico del discernimento, e il discrimen, la discriminazione, è parte anche linguistica del discernimento. Giudicare vuol dire separare, distinguere, discriminare, riconoscere la diversità di fatto senza determinare una disparità di diritti. Credo che tutto derivi dalla rinuncia morale a distinguere il bene dal male, una distinzione che ormai è considerata pedanteria oscurantista, vietata alle persone di mondo che si attengono ai giudizi di fatto, respingono i giudizi di valore nel segno del relativismo, sempre considerandoli pericolosi, ingiusti e discriminatori, appunto. E non si rendono conto che l’eguaglianza è un sacrosanto giudizio di valore sovrapposto al fatto della diversità originaria, di tipo genetico, propria di ciascun individuo determinato, di classi e sottosezioni di classi tra cui – ma è poco più di una boutade – i belli e i brutti con tutte le gradazioni del caso.
Livellare, omologare, includere è un’attività buona quando si tratti di superare ingiustizie e diseguaglianze di diritto e di fatto, ma entro certi limiti. Superati i quali diventa un’ossessione antidiscriminatoria, una rivolta asinina contro l’essenziale funzione del giudizio e del discernimento e della discriminazione concettuale. Chissà, forse questo fenomeno è un portato della democrazia radicale priva del complemento di un liberalismo temperato. Infatti i democratici radicali della cancel culture applicano questo rigetto della discriminazione, in senso assoluto, totalitario, anche e sopra tutto al giudizio storico, che è eguagliato per il passato ai criteri maggioritari nel presente. Decade il gusto della combinazione, il gioco intellettuale del giudizio, decade la funzione etica della distinzione, della gerarchia dei criteri di valutazione dei fatti. Cresce invece un’enfasi moraleggiante indirizzata a correggere le storture del mondo come si raddrizzerebbero le gambe ai cani. Una discriminazione positiva verso i brutti, un ddl Zan per promuovere il vantaggio di chi non ha certi doni di simmetria e attrazione nei colloqui di lavoro, negli esami universitari, nella scala salariale e professionale, è ovviamente in sé una frescaccia. Ma certe frescure acquisiscono una loro dignità, diventano perfino pensabili e argomentabili sul superorgano del correttismo, il giornale di New York, quando si rinuncia a capire che un certo grado di discriminazione è un’idea forse innata nella coscienza umana, e a esso si può abdicare solo a patto di apparire e essere ridicoli.
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