I social non sono la “nuova barbarie”. Contro la retorica intellò

Franco Debenedetti

Siamo "desocializzati nell'uniformità dei like e dei follower", dice Bernard-Henry Lévy. E' tutto il contrario: la tecnologia digitale corre in aiuto delle minoranze, della memoria, dell'interazione

E’ di Claude Lévy Strauss un libro fondamentale nella mia formazione, “Tristi tropici”: l’empatia per i Nambikwara mi fece capire la necessità di svestirsi del proprio background culturale per comprendere un nuovo mondo lontano dalle categorie etnocentriche di un occidente globalizzante e annullatore di qualsiasi forma di diversità culturale. Per questo credo che avrebbe criticato “La nuova barbarie digitale”, l’articolo in cui Bernard-Henry Lévy, su Repubblica 19 giugno, descrive gli effetti di “imbarbarimento collettivo dei social” (tutti) sui membri (tutti) della specie homo sapiens: infatti egli chiamava “metafisica da donnette” queste speculazioni spiritualistiche astratte e lontane dalla concretezza delle scienze sociali.

 

Bernard-Henry Lévy sostiene invece che i social, “con il pretesto della connessione” sottolineano la “rottura rispetto a tutto quello che un tempo plasmava le comunità, la solidarietà, la fraternità”, che ci “desocializzano nell’uniformità dei like e dei follower”. Ma di quale appiattimento parliamo, quando hanno il loro indirizzo Facebook e magari abitano nella stessa città sia una persona che non si permetterebbe mai una frase salace, sia una famiglia che fa venire dal Pakistan i parenti per ammazzare una ragazza rea di rifiutare le nozze forzate?

 

E’ tutto il contrario: “anche se la tecnologia digitale diffonde dei meme culturali comuni, rende più facile alle comunità esprimere le loro distinte differenze culturali ed etniche. Le piattaforme digitali rendono possibile alle diaspore di ritrovarsi su simboli di differenze etniche oppure di respingere i simboli della globalizzazione”: lo scrive Gillian Tett che, nel suo recente “Anthro-vision”, proprio alla mancata considerazione di retaggi antropologici riconduce fallimenti (e successi) di politiche commerciali altrimenti inspiegabili. Le prime a rendersene conto sono state proprio le grandi aziende del digitale. Intel, il grande fabbricante di semiconduttori, dapprima li vendeva per i computer da ufficio; quando, a fine i anni 90, prese a crescere la richiesta di computer personali, a Intel si resero conto di dover capire questi nuovi utenti, non occidentali, soprattutto se donne (i tecnici Intel erano tutti maschi). Incominciarono quindi a assumere antropologhe, al fine di conoscere la rete di significati che la gente dava agli oggetti. E Microsoft diventò una delle più grandi concentrazioni di antropologi al mondo.

 

Dopo la prima accusa di Bernard-Henry Lévy – assenza di mediazione –, dopo la seconda – la rottura di ciò che rendeva coese le comunità – la terza è “l’atrofizzazione della memoria”. Anche a me dispiace che i miei nipoti crescano senza avere in mente la “fatal quiete”, i “cipressetti miei”, la “cavallina storna”. Ne daremo la colpa a “una tecnologia che ci consente di recuperare a nostro piacimento frammenti di ricordi”? La nostra memoria, scrivono Daniele Gatti e Tomaso Vecchi, è frutto di un processo adattativo durato centinaia di migliaia di anni, in cui si è evoluta non come sistema di ritenzione, ma come sistema difensivo di previsione. Quindi è utile che dimentichi e che distorca, ha bisogno di poche conoscenze flessibili (ecco perché dimentica) e sempre aggiornate (ecco perché distorce). Non c’è nessun rischio di perdere la memoria per colpa delle macchine: i computer vanno a coprire una parte – quella del ricordo preciso – che la nostra memoria non può e non deve svolgere”. E’ il solito errore di antropomorfizzare, pensare che ciò che avviene al di sotto di tastiere, mouse e dietro agli schermi corrisponda a quello che avviene dentro la nostra testa. Al contrario, l’uomo ha costruito il computer perché facesse qualcosa che lui non è in grado di fare: memorizzare accuratamente le informazioni.  “Le funzioni pratiche delle due memorie – quella tecnologica e quella umana – sono orientate diversamente, al passato la prima e al futuro la seconda.”

 

Essere diventati “una profusione oscura e assordante dove la verità di ognuno vale quella del suo vicino e ha diritto a tutti i mezzi, pure violenti e financo feroci, atti a imporre la propria legge”; aver creato “un clima di giustizia popolare assetata di chiacchiericcio, una guerra di tutti contro tutti, la cui ferocia nessun Hobbes ha mai immaginato”: sono queste le due ultime accuse di Bernard-Henry Lévy ai social network. Vien da chiedersi quali siano le sue frequentazioni internettiane. Perché, al contrario, la natura interattiva di internet, la sua sostanziale gratuità, lo sconfinato numero dei suoi utenti, l’interscambiabilità della relazione tra utente e fornitore di informazione fa sì che globalmente i social abbiano capacità di disinformare inferiore a quella di qualsiasi mezzo unidirezionale di comunicazione.

 

E poi, quali sarebbero i “rimedi” con cui Bernard-Henry Lévy vorrebbe sconfiggere questa “barbarie digitale”? Non potendo bandire la tecnologia, limitarne le applicazioni? Richiedere l’onere della prova a chi ci si dichiara amico? Pretendere che ogni 100 search si debba mandare a memoria un sonetto del Petrarca (un canto di Dante per l’abbonamento annuale)? Sarebbe troppo tardi: noi non siamo più quelli di prima, è un processo di coevoluzione quello che ha avuto luogo tra noi e la tecnologia. Quando gli utenti si contano a miliardi, il numero dei voyeuristi equipara quello degli esibizionisti. Certo, bisogna smascherare fake news e bloccare hate speach. Ma meglio che a farlo siano i social stessi, se non lo fanno rischiano la loro reputazione: i governi avrebbero poco da perdere. Un futuro distopico è possibile: uno di divieti e censure lo sarebbe di certo. Parafrasando Rosa Luxembourg (e la rivista francese degli anni 50): social ou barbarie.
 

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