Smascherati sì, ma sempre responsabili
E allora evviva le bocche, i denti, le fossette: i volti, tutt’altro che arresi, di noi italiani
Il primo lunedì senza mascherine all’aperto è andato senza infamia e senza lode, senza slanci, e con molte, moltissime mascherine. La grande liberazione è inavvertita perché non c’è, così centellinata e scaglionata assomiglia di più a una circolare scolastica, a un’avvertenza, a un bugiardino. Togliti la mascherina per strada, quando sei da sola, lontana dagli altri: e che ci vuole, se vivi a Craco Peschiera? Prova a camminare due metri a via Merulana, Roma, senza inciampare in un altro essere umano che, se pure la strada è larga, se pure in un anno e mezzo di pandemia ha imparato a mettersi in fila e aspettare il suo turno, quando cammina sul marciapiede, stai certa che lo fa rasente il tuo spazio vitale personale (30 centimetri fra il tuo corpo e il resto del mondo: sono tuoi come è tuo il tuo corpo perché sono parte del tuo corpo): magari sei una calamita, dovresti farti una risonanza magnetica.
La fregatura di questo lunedì è già nel nome, così lungo, articolato e pieno di vincoli. E allora è più liberatorio, oltre che più comodo, mettersi la mascherina anziché toglierla, è un fatto fisico ma anche politico, ce la teniamo addosso più del necessario non in segno di protesta contro il governo ma in suo soccorso, cioè a dire: signori, voi credete che la nostra pazienza sia finita, e allora fate e disfate dpcm un po’ affrettati, e allora noi li seguiamo con lentezza, ci adeguiamo con moderazione, vi aiutiamo con tacita riserva, sapendo che è sempre meglio prendervi sul serio che in parola.
Domenica, a Bologna, la mascherina la portavano già al collo tutti tranne i turisti e qualche anziano. Il signor Carlo, seduto al tavolo di fianco al mio, insieme ai suoi amici, tutti in Lacoste, nota che lo noto mentre dice che “la moglie è un male necessario”, e allora mi fa l’occhiolino, mi chiede cosa sto leggendo e dieci minuti dopo dice al cameriere “la ragazza è con noi, offro io” e io ringrazio e dico “ma va, si figuri” e lui dice “festeggio il suo viso, signorina, tenga giù la mascherina” e poi va via, senza baciamano ma con un quasi inchino che mi fa pensare che dovrei vivere qui, in questa città sono tutti contenti e vivi, sembrano sempre usciti da una festa, anche a colazione.
A sera arrivo a Milano, è ancora vigilia, è ancora mascherina su, e infatti non c’è nessuno che non ce l’abbia, nessuno a parte me, che cammino per Lambrate con una valigia rumorosa e la faccia in mondovisione e alcuni mi guardano come i bambini pechinesi mi guardavano, dieci anni fa, negli hutong, nascondendosi tra le gambe dei genitori che mi chiedevano di fare una foto: ero un alieno. Nessun milanese osa rimproverarmi. Il giorno dopo, i primi volti scoperti che vedo sono quelli di chi va in bici, per strada c’è un buon cinquanta per cento di mascherinati, distanziati e no, a modo loro. Però il colpo d’occhio c’è: da tanto non si vedevano tanti nasi, e bocche, e denti, e fossette, facce più stanche ma in carne, struccate ma belle, tutt’altro che cedevoli o arrese. Nessuno vuol farsi fregare dalla fretta, anche se continuiamo a dire che gli italiani rischiano di agevolare la Delta costringendo il governo a “chiuderci di nuovo”: lo facciamo con la stessa faccia di bronzo con cui abbiamo sostenuto che questo era un paese di No vax e che la colpa della recrudescenza del virus è stata dei ventenni che hanno fatto l’aperitivo sui Navigli. Chi non terrorizza, stavolta, forse, non s’ammala di terrore.
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