Gli applausi per la scienza e la nostra capacità di inginocchiarci solo a metà
Si possono rispettare i dinieghi verso la trasparenza del bel gesto sportivo. Ma la standing ovation di Wimbledon a Sarah Gilbert è stata liberatoria
L’applauso di Wimbledon a Sarah Gilbert, volto severo e spaesato, giacca rossa, eleganza naturale dello sguardo e del corpo, è stato liberatorio in ogni senso possibile. Lei ha reso possibile la vaccinazione dei britannici, in prevalenza con AstraZeneca, si è posta per il suo lavoro e la sua ricerca alle origini di una vita rinnovata dopo l’esplosione mondiale di malattia e morte, al punto di inizio di una provvisoria dispersione della paura, di un faticoso e ancora pregiudicabile ritorno a quella normalità che sta nel sacrario di abitudini e tradizioni degli inglesi. Loro, élite in un popolo che ancora considera virtù e dovere come segno di riconoscimento dell’establishment, hanno applaudito il suo nome, la sua discreta e imbarazzata presenza in tribuna, e lo hanno fatto con entusiasmo sportivo, con un’alzata in piedi e un’intensità di spettacolare bellezza.
In un minuto di delirio progressista, di fede nella scienza esibita, ostentata senza pudore, hanno spazzato via anche le orme del QAnonismo, le bassezze dell’ignoranza spicciola, il misconoscimento e l’ingratitudine rivolti al meglio di quel che siamo capaci di essere. Il luogo del gioco è una specie di adunanza sociale significativa, tempio di culti speciali. Nella stessa giornata agli Europei di calcio si celebrava, con il tormento francese dopo il rigore fallito di Mbappé e la gioia rigurgitante birra dei confederati elvetici cazzuti, il volto oblioso, drogato di identità e passione nazionale, di un’attività per definizione bassa, una strana immensa gioia che si manifesta con l’uso fantastico e giocoliere dei piedi e l’esclusione rigorosa delle mani.
Al Tennis Court di Wimbledon, dove i piedi servono d’appoggio decisivo ma solo per l’uso sapiente delle mani, del polso, del braccio che esprime il coordinamento di tutto il corpo nel tocco, nel punto, nello scambio che esorcizza e allontana il contatto fisico, lì la lezione del fair play, che sembra la sostantificazione astratta di un imbroglio a noi esseri passionali, ha condotto al bel gesto che accompagnerà un’epoca di uscita dalla condizione opaca dell’epidemia moderna, dalla sua terrificante esponenzialità e generalità di contagio.
Da bravi tonti come spesso siamo, noi azzurri abbiamo trasformato il bel gesto della preghiera della rotula, che ha senso solo se azionata da una decisione personale, in un mozione collettiva, magari a richiesta dell’avversario. Un peccato, perché mai come adesso dallo sport era venuto, è venuto, un segno che è meglio di ogni messaggio politico o ideologico, meno brodoso e conformista, un segno spontaneo e contagioso come uno spillover virale di bellezza e innocenza; e noi, che siamo meravigliosi e abili quando si tratti di fare pasticci, li abbiamo fatti tutti.
Ma non importa. Si possono rispettare dinieghi e disgusti, rifiuti e censure verso la trasparenza del bel gesto sportivo, a ciascuno la sua sensibilità; ma chi non si associa all’applauso élitario di quella platea bloomsburiana abituata ai ritardi per pioggia, a partite splendide, ai grandi teloni rigonfi che proteggono l’erba più sontuosa del mondo, chi resta seduto e a mani ferme davanti a Sarah Gilbert è solo un coglione.