Alla lettrice incinta
Deborah o Maddalena? Ogni nome rivela una cultura
Tradizioni famigliari oppure mode del momento, eredità o devozione mistica. La scelta è sempre più complicata non solo per i neogenitori ma anche per gli scrittori e gli sceneggiatori. Indagine
Giuseppe Conte, ma non lui. Quell’altro: cioè l’esponente delle patrie lettere celebrato sin dagli anni Settanta, noto meno di un calciatore ma molto come poeta. Il primo giugno 2018, in piena maturità artistica e anagrafica, affrontò un imprevisto che condivideva con sessanta milioni di italiani ma che lo accomunava a uno solo di loro: l’avvocato pugliese cui un flebile curriculum e l’inosservata biografia non impedivano di assurgere, quel giorno, alla carica di presidente del Consiglio.
Natura non facit saltus. La politica italiana invece sì, anche se gli attuali sviluppi risultano più favorevoli al poeta che all’avvocato circa il futuro riequilibrio dell’omonimia. Giuseppe Conte resterà in ogni caso, come già fu, nome e cognome di classica e stabilizzata diffusione nella storia della penisola italiana. L’esperienza succitata spinge a chiedersi quanto avesse ragione Giulietta a perorare con Romeo l’irrilevanza dei nomi: “Che c’è nel nome? Quella che chiamiamo rosa, anche con altro nome avrebbe il suo profumo”. Ma se non ha torto Shakespeare, forse neanche sbaglia chi, al rovescio, confida di trasmettere per via onomastica certe peculiarità. Dalla scelta trapelano aspirazioni e velleità, ideologie e tradizioni, caduche mode pop o raffinate voghe culturali benché non meno effimere. Certo chi chiama un figlio Wolfango (vedi lo scrittore Mario Soldati) non riporrà in lui le stesse aspettative di chi registra il neonato come Vincenzo o Pasquale, anche se bisogna considerare la discreta percentuale di portatori sani in deroga alla regola del Nomen omen (grava su smunti signori il fardello di un Ercole e donne di costituzione melanconica sono state battezzate Allegra o Gioia).
Coevo del Bardo ma poetante su corde più gravi, il napoletano Giulio Cesare Cortese sciorinò nella sua opera più nota, La Vaiasseide del 1612, una lista onomastica femminile carnale e barocca: Cecca, Iacovella, Meneca, Preziosa, Carmosina, Vasta, Renza, Grannizia e un più durevole Antonella. Cassò invece come “brutti” i nomi Livia e Caterina, forse perché troppo aristocratici o perché ebbero a che fare con la dama di cui s’era infatuato presso il granduca Ferdinando de’ Medici, la quale lo respinse a parolacce e quindi lo aggredì a colpi di tacco. Abbandonata subito Firenze, Cortese s’impegnò nella rivalsa poetica come avrebbe fatto dopo quasi tre secoli e mezzo il modenese Antonio Delfini, altro autoconclamato deluso d’amore. Solo dall’ultimo Ottocento i verseggiatori napoletani elessero il nome Caterina a protagonista di sonetti e canzoni. Riabilitandolo, ma inflazionandolo.
La sorte dei nomi è stata e continua a essere incostante a parte gli sparuti “classici” che – come i titoli di stato – conoscono alti e bassi ma raramente soffrono fatali tracolli. Dal 2001 al 2018 è stato Francesco il maschile più diffuso tra i nuovi nati, poi ha ceduto il primato a Leonardo: se oggi lo scandite in un asilo nido si girano almeno tre bambini su dieci. Resiste dal 2010 in testa alla classifica femminile Sofia, incalzata da Aurora che ha tolto il secondo posto al sempreverde Giulia, già in testa tra il 2003 e il 2009, mentre negli anni precedenti primeggiarono Sara e Martina.
“Diversi sono i fattori che determinano la fortuna di certi nomi, dal fascino dell’esotico a personaggi storici, letterari, dello spettacolo, a ideologie, ai nomi legati a imprese, fatti militari e ad altre circostanze. Tra i nomi che sono stati favoriti dalla musica c’è per esempio Debora, di tradizione biblica ma indubbiamente diffuso anche grazie a una canzone di Fausto Leali. O Kevin, che fu di moda grazie al cinema: non solo per Kevin Costner ma per il piccolo protagonista di ‘Mamma, ho perso l’aereo’ del 90”, ci spiega Carla Marcato, ordinario di Linguistica italiana nell’Università di Udine. Ma quanto resistono le mode onomastiche? “Sono in genere di breve durata e prestigio temporaneo, però possono conoscere dei ritorni: per esempio nomi come Berta e Martino, usati per secoli, agli inizi del Novecento erano percepiti come volgari. Salvo poi, sia Martino che Martina, essere riscoperti di recente”, risponde la linguista (autrice nel 2009 di “Nomi di persona, nomi di luogo: introduzione all’onomastica italiana”).
Necessita fare, tuttavia, un mezzo passo indietro fino alla sopra menzionata Debora(h) assecondando la probabile curiosità di parecchi lettori. E’ con l’acca finale o senza? Sì, è con l’acca nel brano sanremese di Leali (1968); con l’acca nella rinomata scena al telefono del film di Massimo Troisi “Scusate il ritardo” (“ma sempre Deborah è… cioè l’acca è muta”) (1983); l’acca c’è pure nella commedia dei Vanzina “I mitici - Colpo gobbo a Milano” (1994): alla Deborah impersonata da Monica Bellucci il coprotagonista Fabio (Claudio Amendola) rivolge la fatidica domanda non appena il fidanzato Enzo (Ricky Memphis) gliela presenta. E sì, è con l’acca.
“La scelta dei nomi in una sceneggiatura è fondamentale. Noi per esempio”, racconta Enrico Vanzina, “avevamo alcune peculiarità per le nostre, che talvolta diventavano persino un vezzo. Ai personaggi del Nord, solitamente, davamo il tipico cognome Colombo; per i napoletani sin da ‘Sapore di mare’ scegliemmo Pinardi, che era una famiglia di amici i quali si divertivano molto a ritrovarsi menzionati in un film dopo l’altro. Oppure i Covelli, illustre famiglia di un senatore monarchico, anch’essi amici nostri sicché in ‘Vacanze di Natale’ demmo il loro cognome al nucleo familiare di Christian De Sica. Confesso inoltre una piccola superstizione: un amico barese che si chiamava Felice ci offrì lo spunto di mettere il suo nome in un film. Poiché gli incassi andarono alla grande pensammo che ci avrebbe portato fortuna includere un Felice nelle pellicole successive. Se non entrava nella sceneggiatura, in fase di doppiaggio inserivamo una voce fuori campo che diceva, salutando qualcuno: ‘Ciao, Felice!’”.
Un nome indovinato, anzi un diminutivo aiuta un tipo a rimanere inciso nella storia del costume: è il caso di “Un americano a Roma” di Steno interpretato da Alberto Sordi. “Alcuni credono che il cognome del personaggio fosse Moriconi ma non è così”, precisa Vanzina: “Alla sua prima apparizione in ‘Un giorno in pretura’, nell’episodio della marrana, il cancelliere Turi Pandolfini lo chiamava in aula: ‘Meniconi Ferdinando!’. Quindi, in ‘Un americano a Roma’, mio padre lo abbreviò nel Nando tipicamente romano”.
Steno, d’altronde, aveva preferito pure per se stesso contrarre in questo nome d’arte il suo anagrafico Stefano Vanzina: “Aveva lavorato per anni al giornale satirico Marc’Aurelio, di cui fu segretario di redazione. A ispirargli lo pseudonimo Steno fu Sergio Tofano, che si firmava ‘Sto’ i fumetti e che rappresentò il suo idolo. Fellini, che rimase sempre legato a mio padre grazie al quale era entrato al Marc’Aurelio, lo abbreviava ulteriormente in Stenino, anche perché Federico era assai più grosso di lui”, aggiunge Vanzina.
I gusti sia nell’arte sia nella vita da allora sono molto cambiati: “Si sta perdendo il piacere di un nome semplice anche per ragioni di metissage, perché la società è sempre più contaminata da altre culture, mentre io nato e cresciuto a Roma ricordo che soprattutto certa borghesia, quand’ero ragazzo, aveva una gran voglia di rimanere attaccata alle origini più antiche con nomi come Flavio, Massimo, Marcello. E se penso alle mie amiche di infanzia si chiamavano Paola, Marisa, Luciana, Patrizia… solo la figlia di Carlo Ponti si chiamava Guendalina. O i figli di Susanna Agnelli, con i quali andavo a scuola: battezzati Samaritana e Lupo. Nomi che si potevano permettere loro perché erano loro, ma immagina se li avessero portati i titolari di una polleria nella periferia romana…” ironizza Vanzina. “Il guaio sono stati i vip degli anni più recenti, specialmente certi attori americani che hanno imposto ai figli nomi incredibili o ridicoli. Noi li abbiamo malamente scimmiottati: penso a quanto sia meraviglioso il fatto che Totti abbia chiamato la figlia Chanel – che tra l’altro le sta pure benissimo. Ma se non sei la figlia del ‘capitano’ come fai a esibire questo nome? Adesso stanno venendo fuori, per esempio, tanti Tiago: ma che senso ha se abiti, per dire, a Mergellina? Capisco la contaminazione culturale, però quant’erano più belli i nomi dei vecchi santi italiani o delle tradizioni romane. Conoscevo bene Ennio Flaiano perché veniva spesso a pranzo da papà e al tempo già se la rideva delle varie Deborah e Samantha… Ma a proposito: oggi secondo te, uno che si chiamasse Ennio potrebbe diventare uno scrittore di successo?”.
L’importanza di chiamarsi Ernesto, per dirla con l’ipercitato Wilde, è ancora tale nella letteratura? O un nome (e un cognome) vale l’altro sicché addio Mattia Pascal, addio Karenine tutte, ciaone a Zeno, Gesualdo, Ciccio Ingravallo eccetera eccetera? “I nomi utilizzati nei romanzi italiani di adesso mi sembrano più neutri rispetto al passato, anche se la possibilità di scelta risulta cresciuta come è cresciuta, in produzione, la letteratura, ma a questa lievitazione frutto delle tecnologie è corrisposto un impoverimento del vocabolario dovuto a un impoverimento culturale. E una sintassi che possiamo anche chiamare paratattica per essere forbiti, ma che faremmo prima a definire elementare ”, dice il critico e romanziere Franco Cordelli (il quale, tra parentesi, meravigliosamente ammette di non possedere un pc e di scrivere ancora a penna). “Si sono sfaldate anche le radici culturali locali, per cui c’è chi chiama un figlio nato a Napoli con un nome americano piuttosto che Gennaro… Guardando in questi giorni le partite della Nazionale mi chiedevo: ma perché Locatelli si chiama Manuel e non Emanuele? Lui cosa c’entra con la Spagna? Insomma, non vi sfiora il dubbio che quest’apparente allargamento di prospettive e di scelte sia in realtà un immiserimento secco? Quanto più pregnanti erano i nomi dei nostri nonni, che so: prendi Giacinto…”.
Cordelli ha sempre adoperato deliberata attenzione nella scelta dei nomi letterari: “Nel mio secondo romanzo, ‘Le forze in campo’, tutti quelli di donna cominciavano per A perché corrispondevano alla mente di un protagonista per cui le donne erano tutte uguali. I cognomi degli uomini iniziavano per C come Cordelli, ma erano di quattro sillabe e li ‘rubai’ ai calciatori degli anni Cinquanta, perché mi suonavano al contempo buffi e familiari: Cucchiaroni, Costagliola, Cervellati. Invece nel romanzo ‘I puri spiriti’, che s’ispirava all’ambiente degli intellettuali negli anni Settanta, misi per esteso i nomi di battesimo ma i cognomi solo con l’iniziale. Per esempio Alberto A., che alcuni ipotizzarono fosse Arbasino e altri Asor Rosa, era il mio amico sociologo Alberto Abruzzese. Volevo mettere finzione e verità sul filo del rasoio e a conti fatti la presero bene un po’ tutti: Moravia, che nemmeno conoscevo, mi dedicò una recensione di due colonne sul Corriere della Sera”.
Emblematici i nomi nel prossimo libro di Cordelli: “S’intitolerà ‘Tao 48’, perché consta di 48 capitoli e perché Tao, oltre al riferimento alla filosofia cinese, è l’acronimo dell’istituto di terapia anticoagulante orale che frequento una volta al mese da dieci anni. I nomi dei personaggi derivano tutti da Shakespeare però italianizzati, perché lui è il teatro e questo libro si riferisce alla mia vita professionale, alle migliaia di spettacoli che ho visto in oltre cinquant’anni di lavoro”.
Qui si dovrebbe accludere una nota a pie’ di pagina: cosa pensa un raro portatore italiano del più shakespeariano dei nomi, lo scrittore Amleto De Silva, di tale sua particolarità? Se ne trascrive testuale la risposta: “Facevano prima a chiamarmi ‘Caproespiatorio’”. Sin dai tempi di scuola: “Chi vogliamo interrogare oggi? Chi sbattiamo fuori? Chi fuciliamo?”. E’ certo irresistibile la tentazione di pescare, o incolpare, un pressoché introvabile Amleto piuttosto che un Giovanni o un Francesco qualsiasi, replicabili a decine nel corso delle generazioni studentesche. E beati voi se reputate questa soltanto una boutade. E’ piuttosto un’evidenza scientifica: Enzo Caffarelli, direttore della Rivista Italiana di Onomastica, cita in un saggio (“Dimmi come ti chiami e ti dirò perché”) l’esperimento ormai classico condotto una trentina d’anni fa all’Università Cattolica di Milano dallo psicologo Ferdinando Dogana: “Gli stessi temi svolti da studenti delle elementari erano stati giudicati (da un gruppo di adulti) ottimi se firmati con un nome alla moda come Marco o Alessandro, appena sufficienti se i nomi posti in calce erano fuori moda, tipici di generazioni anziane, come Bortolo o Gerolamo”. La scelta di un nome produce sempre effetti: “Un nome troppo banale può favorire l’inserimento sociale, l’accettazione da parte del gruppo”, spiega Caffarelli, “ma anche condannare a essere confuso con altri o ad avere tra gli amici sempre qualche omonimo più popolare, nella cui ombra vivacchiare”. Viceversa “un nome molto originale può favorire complessi di superiorità o di inferiorità”. Insomma, caro genitore, come fai sbagli. E pure questa non è una novità.
Secondo studi inglesi chi porta un nome assai eccentrico, specialmente nelle classi economiche e sociali più elevate, rafforza l’autostima. Forse sarà lo stesso anche in Italia, ma tenendo presente l’ammonimento di Vanzina: va bene chiamarsi Samaritana o Lupo solo per chi se lo può permettere. Poi ci sono quei nomi che da noi, più che eccentrici o rari, resteranno per sempre associati a una persona e basta: Amintore sarà solo Fanfani, Alcide sarà perennemente De Gasperi, Palmiro è Togliatti una volta per tutte e l’unica Oriana è la Fallaci (malgrado una folla di aspiranti reincarnate si pigi sotto svariati nomi in svariate redazioni, optando in seconda scelta per Camilla, nel senso di Cederna).
Ma torniamo a un quesito posto sopra: assocereste oggi un Ennio a un vincitore del prossimo Premio Strega? O sarebbe, sin dai temini delle elementari, vittima del pregiudizio riscontrato nello studio della Cattolica? Per non parlare di un Carlo Emilio. Neanche pare più nome da ingegnere. Povero Gadda, altro supremo cultore onomastico. Chi avrebbe il coraggio di riferirgli che a Milano il cognome cinese Hu ha sbaragliato i Colombo, i Ferrari e i Brambilla? Lui già rimpiangeva, ne “L’Adalgisa”, quei faticatori sessantenni della Confidenza, la ditta di pulizie cui s’affidava la buona borghesia meneghina per la cura dei propri appartamenti: “Questi Eligi, Anselmi, Umberti, o Girolami”, solidi e sessantenni che “pantofolavano e strusciavano per tutta casa dalle undici in poi, sissignora, fedeli all’uscio, implacabili come il destino: ogni martedì e venerdì”, questi “Umbertoni del buon vecchio tempo, coevi di Cavallotti, sotto i gran baffi rotondi gli si era annidato un vago sospetto di acquavite di Piemonte” e qualche padrona di casa “lasciava mescer loro in cucina, a opera finita, un qualche onesto bicchier di vino: magari accanto a un pane, a un bel piatto di minestra con le cotiche: di cui poi fuoruscisse l’osso, non integralmente vedovo della su’ ciccia, d’una costola bovina: d’un bue vero, di Casalpusterlengo, di Sannazzaro, o di Valeggio”. C’è qua dentro, assieme a quegli Eligi e Umberti, tutto il senso d’un mondo che fu.
Perché cosa più di un nome rievoca un’epoca, una nostalgia, una fede ideologica o teologica? La professoressa Marcato ricorda “le ideologie politiche che condizionavano la scelta di nomi come Menotti, Lenin o Lenina, Marx, Engles, Libertà, Progresso, Balilla. O nomi quali Gradisca, Gorizia, Trento, Trieste ricorrenti nel periodo della Grande Guerra e usciti subito dopo dall’uso. O Adua, che si collegava alla campagna d’Etiopia”. Ma poi quanti Benito nel Ventennio, quanti Vittorio, Romano e Italia o Italo (alla voga fu estraneo Calvino, anche se nato nel ’23).
Al polo opposto del laicismo c’è (anzi ci fu) l’iridescente e duratura esplosione religiosa della Controriforma, che si spinse a quegli eccessi votivi sunteggiati da Leonardo Sciascia nella sua recherche dei luoghi del Gattopardo, restituiti dagli archivi storici di Palma di Montechiaro (la Donnafugata del romanzo capolavoro di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, che si trova nella provincia di Agrigento). Ne riemerge la storia di Giulio duca di Palma, il quale aveva sposato la nipote del vescovo di Girgenti Rosalia Traina generando otto figli, ma cedette alfine alla troppo compressa vocazione religiosa e si ritirò nell’eremo di Monte Calvario. La moglie allora, fondato un monastero mariano, si rinchiuse anch’essa assumendo l’inarrivabile nome di Maria Seppellita “insieme alle figlie Francesca (suor Maria Serafica), Isabella (suor Maria Crocifissa), Antonia (suor Maria Maddalena), Alipia (suor Maria Lanceata)”. “Pagina crediamo unica – osserva Sciascia – di profondo e violento misticismo, nella storia siciliana”. Da quella vicenda settecentesca trasuderà nel “Gattopardo”, come un filo d’olio santo da un’antica reliquia di famiglia, la memoria di suor Maria Crocifissa (ossia Isabella) sotto il mutato nome della Beata Corbera. Però, sebbene fosse denso quel passato di “allucinate vette di masochismo, di algolagnia”, bisogna riconoscere “che dentro tanta follia correva anche una vena autentica di pietà, di carità, di rispetto per gli altri, di amore ai poveri”.
Alla fine della corsa, uno dovrebbe onestamente suggerire a chi si sente insoddisfatto del suo nome, o ritiene di deviare il proprio destino dai binari anagrafici, di fare come Steno, Pitigrilli (Dino Segre), Italo Svevo (Ettore Schmitz), come una schiera di predecessori illustri che potrebbe riempire una pagina intera fino a giungere agli attuali pseudonimi di cui neanche si conosce il nome di riferimento o l’identità personale. Come il writer Banksy, il rapper Liberato o il troppo noto caso di Elena Ferrante: “Tanti anni fa con lo scrittore Sergio Lambiase ipotizzammo persino che fosse frutto di una crasi tra una Elena e la memoria degli Aragonesi rivelata dal ‘cognome’ Ferrante. Perciò tra il serio e il faceto scovammo sull’elenco telefonico una Elena D’Aragona, la quale, poverina, alle nostre allusive domande cascò assolutamente dalle nuvole”, ricorda Mirella Armiero, responsabile della Cultura per il Corriere del Mezzogiorno e osservatrice della cosiddetta Ferrante Fever.
Per chi non voglia ricorrere alle arti occulte (e quasi impenetrabili) della gematria, che assegna alle lettere misteriosi valori numerici; per chi codeste arti spregi però non sia tentato di propiziare un destino laico a suo figlio col sarcastico nome di Odifreddo; per chi non voglia cedere alla labilità delle mode; per chi resista pure alle tradizioni familiari, che ripeterebbero nei figli i nomi dei progenitori; per chi non abbia particolare devozione mistica verso santi, campioni e star del pop; per chi amava la Garbo ma non potrebbe più chiamare Greta la figlia per colpa della Thunberg. Per tutti quanti insomma, valgano le regole oggettive e universali che dettarono Fruttero e Lucentini. Nella scelta dei nomi si tenga presente il cognome: evitare le rime tra l’uno e l’altro; compensare un cognome cortissimo con un nome lungo (e viceversa); niente nomi doppi sui doppi cognomi; no alle cacofoniche ripetizioni sillabiche (Alba Barbieri, Enrica Caruso, Ida Damiani); mai ricalcare il nome sul cognome (Benedetta Benedetti); se ti chiami Rossi o Bianchi meglio escludere Mario e Maria, per evitare equivoci burocratici, disguidi postali e spaventevoli errori giudiziari.
Ricordiamo infine che per ognuno di noi un nome, soprattutto se non molto diffuso, sarà sempre legato a una persona che lo portava e che abbiamo conosciuto, magari nell’infanzia, per cui quando sentiamo pronunciarlo inevitabilmente qualche volto ci tornerà alla mente. Lo confessava Giacomo Leopardi, condizionato dal ricordo infantile di una vecchia e odiosa Teresa, per cui faticò sempre ad associare questo nome a una giovane amabile e bella. Forse per questo tramutò in Silvia l’identità poetica della figlia del cocchiere, Teresa Fattorini, quando commosso ne rievocò in un Canto sciupato dalle scuole la morte troppo precoce per tisi (Tu, pria che l’erbe inaridisse il verno,/da chiuso morbo combattuta e vinta,/perivi, o tenerella…). Che poi Giacomo, già che ci troviamo, mica sarebbe un brutto nome. Sicuramente meglio dell’equivalente portoghese Tiago.
generazione ansiosa