Come cambia il lavoro dopo la pandemia /2
L'annus horribilis dell'istruzione. Parla il rettore dell'Università di Bergamo
"La dad è un mezzo, non un fine"
Come sono cambiati i docenti e gli studenti. I mesi di adattamento e il rischio di "assuefazione" allo scenario smartphone e pigiama
Riprendere a studiare in presenza dopo i mesi di didattica a distanza, e affacciarsi al mondo del lavoro dopo la pandemia. C’è una “lezione” da portare nel prossimo futuro, dopo questo anno e mezzo difficile per studenti e docenti? “Alcune cose le stiamo metabolizzando ora”, dice Remo Pellegrini, rettore dell’Università di Bergamo, la città assediata dal virus nei primi mesi drammatici dopo la comparsa del Covid. Antefatto: Pellegrini è il rettore che alla fine del febbraio 2020, mentre il resto del paese stentava a credere di essere già in un incubo, ha preso la decisione, su due piedi, di spostare le lezioni sul web. “Ho sentito istintivamente che era la cosa giusta da fare: Bergamo è un ateneo frequentato da molti fuori sede, ragazzi che sarebbero saliti sui mezzi il lunedì mattina”.
Anche in quel momento, però, Pellegrini pensava quello che pensa oggi, ex post: “La didattica a distanza è un mezzo e non un fine”. Tanto più lo ripete dopo un anno e tre mesi in cui “siamo tutti cambiati”, dice, “anche se all’inizio faticavamo a rendercene conto”. Procedendo a ritroso, c’è un momento in cui è diventato chiaro l’insegnamento: “Ci siamo scoperti più autonomi, ma anche pronti ad assumerci una responsabilità sociale, quella di dover affiancare una generazione disorientata di fronte allo choc della pandemia; così come gli studenti si sono subito mostrati capaci di partecipare all’attività didattica in una dimensione nuova. Eravamo al centro della tempesta, ma siamo riusciti, docenti e ragazzi, a stabilire un dialogo inedito”. C’erano professori ricoverati, nella primavera del 2020, e qualcuno non ce l’ha fatta. C’erano ragazzi con più lutti in famiglia. “La nostra risposta come Università non poteva essere solo accademica”, dice Pellegrini. E oggi, guardandosi indietro, il rettore vede una comunità capace di reagire ma che non può più fare a meno dello scambio diretto.
“Un recente studio Almalaurea restituisce una fotografia interessante: gli studenti, all’80 per cento, parlando della dad, la considerano uno strumento utile. Ma dicono: vogliamo tornare in aula”. Alla fine del primo lockdown, racconta Pellegrini, “abbiamo cercato di fare in modo che i più fragili e quelli che, essendo al primo anno, non avevano mai vissuto l’ateneo dal vivo, potessero essere coinvolti in presenza almeno in parte. Ma, con nostro grande stupore, le aule in quel momento sono rimaste mezze vuote. Forse era perché quegli studenti non avevano ancora vissuto una vera esperienza formativa. Per formare dobbiamo esserci dal vivo”. Era paura? Assuefazione? “Ecco, proprio questo dobbiamo combattere: l’abitudine alla comodità relativa dello studio da casa. Alla fine non ti rendi neanche più conto di quanto ti è stato tolto. Certo, nell’emergenza la tecnologia e il rapporto telematico sono fondamentali, ma poi? L’Università è e deve essere soprattutto relazione”.
E’ il motivo per cui, durante i mesi di secondo lockdown intermittente, a Bergamo è stata data la possibilità agli studenti di entrare in ateneo su prenotazione. “Bisogna evitare che i ragazzi si chiudano in se stessi, ora: la dad consente l’apprendimento, non la formazione, come dicevo, e non possiamo permetterci altri mesi di smartphone e pigiama”, dice Pellegrini, che ha visto quanto bisogno di contatto interpersonale ci fosse anche tra matricole che non si conoscevano, ma che avevano creato comunque delle chat per comunicare. “Qui lo dico: noi a ottobre ci saremo, in presenza, e faremo di tutto, assieme alle famiglie, per spezzare la tendenza al ripiegamento”.
generazione ansiosa