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Ferragni e Carrà, su donne e gay forse avevano valori simili ma di sicuro metodi opposti
Esistono bambole con il loro volto. Tutte e due hanno usato la popolarità in chiave politica. Ma la Carrà ha incarnato le sue idee nell'arte. Chiara Ferragni invece si esprime con i modi della politica tradizionale. Cioè tribunizia
Ho incontrato Raffaella Carrà in un grande albergo di Milano nel febbraio 2016. Dopo un’ora e mezzo di chiacchiere, poco prima di alzarci e salutarci, aggiunse una frase senza quasi collegamento con quanto detto in precedenza: “Mi lasci dire una cosa: io sono cresciuta senza un padre. Era danaroso, ma troppo playboy, e mia madre divorziò nel 1945. Era molto avanti, forse qualcosa mi è rimasto. Non mi sono mai voluta sposare e mi ha sempre fatto arrabbiare non potere adottare figli senza l’obbligo di quest’anello! Oggi, quando si parla delle adozioni a coppie gay ma anche etero, faccio un pensiero: ‘Ma io con chi sono nata, con chi sono cresciuta?’. Mi rispondo: con due donne, mia madre e mia nonna. Facciamoli uscire i bambini dagli orfanotrofi, non crescono così male anche se avranno due padri o due madri. Io le ho avute. Sono venuta male?”.
Ripenso a queste parole nel giorno in cui Chiara Ferragni ha attaccato Renzi scrivendo “politici fate schifo” per le difficoltà incontrate in Parlamento dal ddl Zan che, come noto, aggiunge all’elenco delle discriminazioni già punibili dalla legge Mancino anche quelle basate su sesso, genere, orientamento, identità e disabilità. Indipendentemente dal merito della questione (sono abbastanza favorevole al ddl in questione), mi colpisce la differenza con cui Carrà e Ferragni hanno usato e usano la propria popolarità in funzione politica. L’approccio di Carrà è sempre stato indiretto: ha messo in scena le sue convinzioni attraverso il lavoro, le canzoni, i costumi, i balletti, o al massimo le ha incarnate nelle sue scelte di vita, come quella di non sposarsi e avere figli (scelte che, peraltro, ha sempre strenuamente protetto e tenute separate dall’attività pubblica). La rivendicazione del diritto alla libertà, che ha accompagnato tutta la sua carriera, è sempre stata indiretta e proposta in positivo, come attitudine individuale, e mai rivolta contro qualcuno, per compattare le folle indicando nemici.
L’approccio alla politica di Ferragni è opposto: propone le sue battaglie direttamente, argomentandole in modo complesso ma facendo sintesi violente (“politici fate schifo”), come violente sono le ribattute del marito. Le sue idee non si incarnano in nessuna arte – anche perché non ne pratica alcuna – ma sono espresse secondo le modalità tipiche della politica tradizionale, perfino classica, cioè tribunizia. Chiara è la leader che parla alla folla accorsa ad ascoltarla. Come Evita Perón. Per Raffaella Carrà, invece, ha sempre parlato il corpo, che Ferragni non sembra quasi possedere. Di Raffaella Carrà, quando ballava, sentivi quasi il sudore e potevi immaginare i calli sui piedi. Chiara Ferragni appare asessuata. Pura immagine. Tutto in lei sfuma nell’incorporeo digitale.
Eppure entrambe in un certo senso sono state bambole, e non soltanto perché esistono Barbie Ferragni e Raffa dolls, ma anche perché bambole e pupazzi svolgono una funzione politica fondamentale: sono gli strumenti con cui si permette ai bambini, e soprattutto alle bambine, di mettere in scena la società e i suoi valori, di accettarli o contestarli o elaborarne di nuovi. Annunciano i mutamenti del costume perché orientano e incarnano il desiderio collettivo. All’inizio della sua ascesa Chiara Ferragni assomigliava una paper doll, a una di quelle bambole di carta ritagliabili a cui si cambiano gli abiti che si diffusero in modalità industriale nell’Inghilterra vittoriana. La neutralità è stata la sua forza, perché permetteva a chiunque di proiettare su di lei una versione di successo di sé. Per questo, oggi, Ferragni per la politica deve usare le parole, come un politico di professione.
Mezz’ora prima che Raffaella Carrà mi parlasse della sua infanzia e delle ragioni per cui era favorevole alle adozioni gay, le avevo chiesto se si fosse mai domandata perché piacesse tanto agli omosessuali. “Una volta un gay mi ha spiegato: ‘Tu sei la bambola che da bambini non abbiamo mai avuto’. Però non strizzo l’occhio, non metto le piume... Solo Swarovski! Almodóvar, a ‘Che tempo che fa’, ha detto: ‘Raffaella Carrà non è un’artista, è uno stile’. Beh, un complimento così in Italia non me l’hanno mai fatto”. Una bambola così in Italia, e forse anche in “Ispagna” (diceva così), non l’avevano mai avuta neppure i bambini e, soprattutto, le bambine eterosessuali, ammaestrate dalle loro bambole a giocare alla brava moglie e brava mamma, o a immaginarsi truccate, eleganti e desiderabili. Raffaella Carrà è stata, credo, una figura chiave per il femminismo italiano perché, prima e più di ogni altra, ha mostrato (anche ai maschi) che il sesso poteva essere un divertimento, anche per le donne. Che per essere belle e vive non era indispensabile essere oggetti sessuali, ma bisognava diventare soggetti sessuali. Soggetti di desiderio.
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