Foto: Bermix studio

Guai a dire “senzatetto”. L'università vara la lista dei termini proibiti

Antonio Gurrado

Parole da non usare perché offensive. Il ridicolo del pol. corr.

No, “tribù” non si può dire, quando vi riferite a un gruppo di amici, perché “il termine è stato storicamente utilizzato per disumanizzare gli indigeni”. No, “uccidetemi” non si può dire, neanche durante le lezioni più pallose o i periodi di studio più lugubri, perché “scherzare sul suicidio sminuisce sia il problema sia le persone che lo stanno prendendo seriamente in considerazione”. E nemmeno va bene l’equivalente del nostro “a occhio e croce” – “rule of thumb” – perché deriva da “una vecchia legge britannica che consentiva ai mariti di picchiare le mogli con un bastone non più largo del proprio pollice, anche se mancano testimonianze scritte al riguardo”.

 

Da quest’estate, alla Brandeis University (Massachusetts) parlare diventa complicatissimo in quanto l’ateneo ha diramato una lista di termini proibiti, fornendo per ciascuno la spiegazione del perché risulti offensivo e alcune opzioni sostitutive. La “Oppressive language list” si articola in cinque sezioni: linguaggio violento, identitario, equivoco, mimetico (l’appropriazione culturale) e “person-first”, ossia che si rifiuta di identificare una persona in base a una sua specifica caratteristica. Ad esempio, non si può dire “senzatetto” ma “persona senza casa”, non si può dire “schiavo” ma “persona che viene schiavizzata”.

 

E’ curioso che la lista provenga da una istituzione intitolata a Louis Brandeis, giudice della Corte Suprema nominato da Woodrow Wilson, che circa un secolo fa espresse un parere secondo cui la libertà di parola andava limitata solo qualora rischiasse in modo “chiaro e presente” di causare atti illeciti. Se la Brandeis decide di limitarla, è non solo poiché ritiene che questo pericolo incomba in maniera chiara e presente ma anche poiché ritiene il linguaggio frutto di condizionamento e non di consapevolezza: nei “Principii di libertà di parola e di espressione” affiancati alla lista è scritto “Le parole che scegli non dipendono interamente da te”.

 

Siamo ciechi portavoce di pregiudizi sedimentati da secoli. Ne consegue che anche le espressioni più innocenti affondino le radici nelle peggiori intenzioni, giustificando la loro eliminazione per mezzo di spiegazioni cervellotiche che, pur di evitare il minimo rischio di offesa, danno per scontata o la malafede o l’ignoranza di chi parla. Dentro ciascun termine proibito viene conservato lo stigma di un peccato originale, che nega l’evoluzione del linguaggio. Allo stesso modo è impossibile utilizzare metafore, iperboli o paradossi. La lista interpreta ogni parola letteralmente e deve farlo, in quanto sottrae intenzionalità al parlante riducendolo a persona che non sa ciò che dice, inconsapevole maneggiatore di armi letali all’apparenza innocue. Né sono ammesse sfumature di ironia, in quanto l’offesa è sempre nelle orecchie di chi ascolta, quindi il contesto non ha nessuna speranza di influire sul testo.

 

Si vede che la lista è congegnata per l’ambiente universitario, dove spesso si ha gran tempo da perdere: il più delle volte i termini proibiti sono soppiantati da perifrasi lunghe almeno il quintuplo, a detrimento dell’esattezza lessicale. Inoltre la lista è potenzialmente infinita, concludendosi con un modulo in cui chiunque può proporre un nuovo termine da ostracizzare con la relativa spiegazione. Non solo: la lista si autofagocita. Di fatto è un complicatissimo trigger warning, un avvertimento sul potenziale danno procurato premendo un metaforico grilletto; se non che anche trigger warning è un termine proibito, in quanto “ha a che fare con le armi da fuoco e possiamo ottenere lo stesso risultato con un linguaggio meno connesso alla violenza”, parole come “nota sul contenuto”. Meglio è andata al termine “picnic”, bandito soltanto per breve tempo. Era apparso nella lista a fine giugno perché “associato al linciaggio di neri cui i bianchi assistevano mangiando”, salvo poi venire espunto una volta travolto da un’ondata di derisione collettiva contro cui la correttezza politica non ha potuto nulla.
 

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