Shiva Baby, il manifesto di una generazione in ritardo
Nel primo lungometraggio della regista e scrittrice canadese Emma Seligman tutto diventa metafora della difficoltà di diventare adulti nel nostro tempo
Danielle (Rachel Sennott) ha appena finito gli studi, ha uno sugar daddy che la mantiene, un’ex ragazza che cerca di tenere segreta e un futuro che non si prospetta poi così brillante. Tanto che allo shiva di un parente, la veglia funebre della tradizione ebraica, deve di volta in volta inventarsi un roseo avvenire per sfamare la morbosa curiosità del suo interlocutore. Perché, appena varcata la porta, iniziano le domande fameliche dei parenti. “Sei dimagrita? Sembri Gwyneth Paltrow con i buoni pasto”, le dicono.
Shiva Baby, della regista e scrittrice canadese Emma Seligman, al suo primo lungometraggio, è un film a metà tra la commedia e l’horror psicologico. Ambientato all’interno di una casa, con una colonna sonora costruita su violini che massimizzano il senso di oppressione e accerchiamento, è il ‘coming of age’ manifesto di una generazione. Tutto in Shiva Baby diventa problematico, tutto diventa metafora della difficoltà di diventare adulti nel nostro tempo: dal rapporto con il cibo al buffet, all’andare in bagno al piano di sopra, al dover tenere nascoste le proprie relazioni, troppo poco ortodosse per i parametri della piccola comunità ebraica americana riunita allo shiva.
Insomma, diventare adulti è un incubo e la mimica facciale della brava Rachel Sennott ce lo rende un processo quasi disgustoso, una metamorfosi animale. Un incubo che oggi riguarda soprattutto le ragazze, imprigionate, come la protagonista Danielle, nel mito fintamente femminista della self-made woman, che assomiglia sempre più a un self-made man in giacca e tacchi a spillo. D’altronde, il suo sugar daddy la vorrebbe futura imprenditrice di successo, pronta ad affermare e afferrare il proprio destino a mani nude, mentre Danielle si rivela una banale Neet, che aspira a non avere aspirazioni.
Perché la generazione di Danielle è una generazione che non può crescere. Obbligata a raccogliere l’eredità di due crisi economiche, quella del 2008 e la recessione causata dalla pandemia, è imprigionata per sempre nel ruolo di figlia. Come Danielle, che dipende dai genitori, dai loro soldi, dal peso delle loro macchinazioni, dal loro giudizio, dalle loro isterie.
Diventare adulti non è mai stato facile. Ma ci sono elementi che hanno reso il gioco più duro, anche in Italia. Qualche esempio. Secondo l’Eurostat, la retribuzione media annua di un laureato italiano è di 28.000 euro lordi: tra le più basse in Europa. Troppo poco per poter lasciare la casa di mamma e papà (o forse sono così basse perché non si ha il coraggio di lasciare le case di mamma e papà?). Non è forse un caso che oggi, nella fascia 18-34 anni, i giovani in povertà assoluta siano 1,2 milioni, l'11,6 per cento, contro una media nazionale del 5,6 per cento (dati Istat). Tanto, che nonostante le agevolazioni del governo Draghi, la prima casa resta un miraggio per molti.
Il mercato del lavoro? Il tasso di partecipazione dei giovani, tra i 15 e i 24 anni, alla forza lavoro è in continua diminuzione secondo l’Ilo.
Il matrimonio? Rispetto al 2014, la propensione a sposarsi per la prima volta subisce un crollo tra i giovani fino a 34 anni, segnando rispettivamente meno 9,5 per cento per gli uomini e meno 7,8 per cento per le donne.
Il primo figlio? A 31 anni, il dato più alto d’Europa. Insomma, l’orologio sociale ed economico non è sincronizzato con quello biologico.
Millennial e gen z sono quindi generazioni in ritardo per definizione, ma mentre per gli appartenenti all’ultima categoria i giochi non sono ancora stati definiti, per i primi le possibilità di arrivare, da adulti, all’età adulta si sono ridotte drasticamente con la pandemia e la sua ventata di rinnovata precarietà. Ma è su di loro che pesa il futuro del debito pubblico: meglio augurarsi che crescano in fretta, dunque. Come Danielle, generazione z e millennial si trovano a vivere un paradosso: invecchiare senza crescere, intrappolati in un’eterna adolescenza dal sapore ‘cringe’, testimoniata, per esempio, dalla nostalgia di un passato che forse non è mai esistito. Un po’ come quello raccontato dalle serie tv, che sono diventate il tratto distintivo di una generazione che il sabato sera non balla più, perché ballare significa sperare, ma sprofonda nel divano, la nuova comfort zone, ingurgitando finzione.
La soluzione? Forse può essere la stessa di Danielle: ritrovarsi nell’Altro, in due mani che si stringono sui sedili posteriori di un caotico van, con il trucco colato e le urla di una bambina piccola. Due mani che condividono le stesse paure e le stesse potenzialità di una generazione di eterni figli, che della precarietà dell’esistenza può fare il suo punto di forza.