La fine del maschio alfa
Il corteggiamento maldestro che sfiora la molestia, le discriminazioni: tutta colpa del patriarcato? La guerra dei sessi è diventata una guerra di potere. Ma è difficile uscirne con il moralismo, senza tener conto dei corpi e del desiderio. Storie e idee per un’indagine
Quando ho visto la diretta Instagram di Michela Murgia, mi sono ricordato di un vecchio episodio, roba di 15 anni fa. All’inizio della diretta (si sarebbe parlato di molte cose che mi interessavano: cancel culture, femminismo intersezionale, trans, madri costituenti, ecc.) Michela Murgia ha presentato il professore di italianistica Alessandro Giammei, “la persona meno maschilista che io conosca”, ha specificato. Subito la discussione si è incentrata (non ricordo perché) sulla virtualità, e Giammei ha raccontato di una sua amica, una professoressa ispanoamericana, innamorata di un astrofisico di Chicago. I due però abitavano in luoghi diversi e insomma non si erano mai visti e proprio per questo il loro rapporto andava molto bene. Dunque, Giammei ha commentato pressappoco così: sta andando bene proprio perché esistono a distanza, incontrarsi a distanza permette di superare una serie di ostacoli che il patriarcato mette tra di noi, quindi si può sviluppare un innamoramento più bello, più sano di quello che si sviluppa quando i corpi (soggetti al patriarcato) si incontrano.
E’ stata questa dichiarazione che mi ha ricordato l’episodio avvenuto anni addietro. Riguarda i corpi. E insomma, stavo a Bari, avevo partecipato a un premio. Ai premi seguono, di solito, i rinfreschi e difatti sedevo a un tavolo con due persone: una giovane ragazza e un anziano scrittore. Ho sempre difficoltà a ricordare le scene nei minimi dettagli, anzi, dissento e prendo le distanze da quegli scrittori che si ricordano com’era la luna trent’anni prima (e poi magari, interrogati, non sanno dire se la luna è calante o crescente). Comunque, la sera era placida, estiva (la luna non mi ricordo se c’era), il clima festoso con il chiacchiericcio di sottofondo, la ragazza era molto carina, vestita di nero, simpatica e sveglia e lo scrittore ancora piacente. Scommetto che anni addietro era tra quelli considerati belli e affascinanti, insomma uno che sapeva campa’: molti libri e programmi televisivi alle spalle, frequentazioni colte, eloquio raffinato. E sarà stato il clima estivo, la contentezza per il premio ricevuto, fatto sta che lo scrittore ha cominciato a battere i pezzi alla ragazza, a fare la pusteggia, lo splendido: c’ha provato. C’erano molti anni di distanza fra lui e lei e anche fra me e lei. Però il corpo dello scrittore sembrava ringiovanito, il suo desiderio era una cosa fisica, misurabile. Ovvio, secondo me sbagliava approccio, oggi, forse, si sarebbe chiamata molestia (tutte quelle citazioni colte, un modo per evidenziare il suo potere, e quegli apprezzamenti sul vestito corto di lei, sulle zanzare che sanno dove trovare carne fresca), ma quella sera d’estate, al rinfresco post premio, nel clima dell’epoca, lo scrittore sembrava proprio uno che ci sta a prova’.
E’ stata la dichiarazione di Giammei sulla presenza del patriarcato tra corpi che mi ha tirato fuori il ricordo. Difatti, mentre scrivo, rivedo il corpo di lui e quello di lei, la tracotanza dell’avventuriero che deve raggiungere l’isola del tesoro e l’imbarazzo di lei che non vuole che nessuno la raggiunga. Uno proteso l’altra in difesa. E ricorderò sempre l’arrivo di un terzo incomodo (oltre me), un ragazzo giovane. Dicevo, non mi piacciono gli scrittori che descrivono dettagli di scene che non potrebbero ricordare (e poi ci mettono pure la luna ma non sanno dire se è calante o crescente: una falce di luna, scrivono), quindi cercherò di essere essenziale: mi ricordo che era un ragazzo bello, bello perché giovane. Mi ricordo il suo corpo muscoloso, che nell’entrata in scena ha diviso il mondo in due, quello antico dello scrittore (e pure il mio) e quello del futuro. Ricordo anche il seguito: la ragazza che si alzò di scatto per abbracciarlo. Ricordo che disse: scusate, e poi andò via con lui. Mentre sparivano dal campo visivo, lei pian piano si avvicinò a lui, e nella prospettiva i loro corpi si fusero e forse (ma non ne sono sicuro) lei gli sussurrò qualcosa all’orecchio.
E ricordo (nonostante non mi piacciano certi dettagli) il buio che avvolse lo scrittore, come un polpo con i suoi tentacoli, quel buio si strinse a lui, così che quel corpo, prima aitante e prestante, desiderante, ora si rimpiccioliva, quasi spariva sullo sfondo, diventava un dettaglio insignificante nel panorama classico dei cocktail post premio: persone che parlano, si sfiorano, bevono, perdono i freni inibitori, si cercano, si scoprono o a scoperta avvenuta scappano: il corpo della vita nel suo svolgersi. Ricordo che lo scrittore mi disse una frase che ora uso anch’io spesso: ora la serata è finita. E andò via, sparì. Tanto che dovetti trovare delle scuse a quelli che mi chiedevano che fine avesse fatto. Memore di quell’espressione, ora riesco a percepire con molto anticipo quando la serata finisce, quando les jeux sont faits per dirla alla Jean-Paul Sartre o come un croupier qualsiasi, cioè quando i corpi smettono di produrre desiderio o falliscono e dunque si ritirano.
Quale punto di vista tenere a mente? Quello del vecchio arzillo scrittore che batteva i pezzi, sfiorando la molestia, imponendo la sua cultura patriarcale, o quello della ragazza che non vedeva l’ora di andare via e che avrà commentato e forse per gli anni a venire: hai visto quel vecchio? Che cazzo voleva?
Forse il punto da tenere a mente, un punto di vista irrinunciabile invece è: stupido non pensarci, quello che è accaduto allo scrittore sarebbe potuto accadere a me, un po’ a tutti, e quello che è accaduto alla ragazza è accaduto a tante. Stupido non pensare che abbiamo dei corpi che combattono nell’arena e vincono o cedono, entrano ed escono di scena. E’ accaduto allo scrittore, e chissà, accadrà alla ragazza quando il suo corpo smetterà di desiderare.
Purtroppo mentre il mio ricordo fluiva, la diretta con Murgia e Giammei andava avanti e quindi mi sono perso gran parte delle cose interessanti dette. Ma forse quell’anticipo di conversazione un po’ come l’arrivo del ragazzo di quella sera, ha diviso il mondo in due, un vecchio mondo e uno nuovo, ha segnato i limiti tra il vecchio corpo con i suoi apparati bioculturali e un corpo che forse verrà, più etereo, meno materiale, libero dal patriarcato. In fondo, così come era stato esposto, il patriarcato, che come un demone si impossessa dei nostri corpi e rende difficile la comunicazione vis a vis, corpo a corpo – immaginatevi se si tratta di corteggiamento o di seduzione – quel tipo di patriarcato rende più complicati gli approcci (sembriamo esorcisti che a forza di rituali e preghiere tentano di cacciare il demone incistato nelle carni).
Tuttavia, solo una cosa – che però non so se è importante, voglio dire importante per il ricco e notevole e interessante dibattito in corso: io non sono d’accordo con Giammei (per carità, mi piace molto, e ora lo prendo come escamotage narrativo per delineare una tendenza). Non solo per l’ontologia del patriarcato buttata lì, ma perché se perdiamo il corpo perdiamo il conflitto e se perdiamo il conflitto perdiamo la narrazione e la possibilità di indagare più accuratamente sulle relazioni tra i corpi e sperare in una loro temporanea risoluzione.
Se perdiamo il corpo o non lo consideriamo e intendo dire non lo consideriamo come entità bio-culturale (con le richieste della biologia e il sostegno della cultura) è come se rinunciassimo alla lotta dura e preferissimo solo belle dichiarazioni di intenti che sì, d’accordo, ci posizionano nel mercato globale o almeno ci fanno trovare la nostra santa nicchia di riferimento, ma poi va a finire che le suddette dichiarazioni si scontrano con i cocktail post premio e con tutti i party di domani per dirla alla Nico. Vogliamo toglierci la possibilità di raccontare i corpi? La ragazza che fugge abbracciata al ragazzo e quella dello scrittore arreso alla giovinezza, arreso allo specchio che riflette la sua immagine, proclamando la fine del suo mondo e non solo del party.
Non sarei d’accordo. Anche perché purtroppo o per fortuna tutti gli istanti di felicità non riguardano grandi idee e grandi temi ma sollecitazioni del corpo pure e semplici (Gaber ci ha scritto anni fa una canzone: “L’illogica allegria”). Certi momenti al tramonto quando pedalando costeggi un campo e senti l’odore dell’erba o di stallatico. Sotto la doccia, quando getto dopo getto depensando ti accorgi che stai bene, per non parlare della brezza marina e dell’effetto che fa sulla pelle, o alcuni momenti quando ti accorgi di un particolare che non avevi mai notato. Poi devi considerare il desiderio del corpo e i corpi da desiderare, desideri che quando mai si incastrano alla perfezione: insomma per tutti gli stati emotivi definibili come felicità c’è un corpo che registra e reagisce.
Ovvio, lo so! La vera felicità come il vero piacere sta nel differirla oppure ostacolarla, se non c’è una siepe hai voglia di cercare l’infinito, il problema è che queste tecniche per differire la felicità richiedono impegno o mortificazioni corporali e quindi o non sono troppo saggio o sono troppo pigro.
Non sono d’accordo, dicevo, anzi mo lo dico, ma temo di dirlo: il capitalismo con cui si fa coincidere il peggior patriarcato è tirato in ballo male, per lo meno in questo caso. Il capitalismo ci ha dato un sacco di guai (e non mi dispiace combattere il capitalismo anche se non so bene come sostituire il mercato: nessuno lo sa e questo è un guaio) ma pure l’ecologia (se si è benestanti si è più attenti all’ambiente), il vegetarismo e il veganismo, il benessere e la sensibilità verso i più deboli e gli animali (se guardate alcuni format, come “Nudi e crudi”, vi accorgerete che quando siete affamati in mezzo a una foresta, nudi e spaventati, vi mangiate uccellini e serpenti senza alcuna pietà).
Se stai bene e sei affrancato dalle richieste materiali e ancestrali e comiche del corpo (fame, casa e sesso) puoi pensare meglio alle suddette richieste e modificarle in meglio. Infatti il benessere ci ha dato l’emancipazione femminile e quella gran rivoluzione del femminismo perché anche qui, la povertà e l’ignoranza hanno prodotto sia società patriarcali sia società matriarcali. Si intende quelle in cui le donne decidevano e preferivano investire sui figli maschi. Una delle più volgari forme di resistenza alla psicanalisi – dice Carla Melazzini – è sempre stata di relegarla a faccenda riguardante la struttura psichica della famiglia borghese patriarcale dell’epoca vittoriana. Qualcuno degli epigoni di questa spigolosa teoria potrebbe andare a fare un po’ di agriturismo in una zona sperduta del sud approfittandone per dare un’occhiata alla vita psichica delle famiglie contadine dell’epoca postindustriale. Troverebbe facilmente una diffusa patologia facente capo alla figura materna, e riguardante in prima istanza i figli maschi e spesso, in forme diverse, tutti i maschi della famiglia (ed è un limite che molti uomini e donne indaghino più sui padri che sulle madri). Ci ha dato la possibilità, insomma, di discutere di orientamenti diversi. Certo alcuni faticano a imporsi, perlomeno a liberarsi dai giudizi coatti e violenti di alcuni di noi, ma tuttavia sono entrati a far parte di molti format e talk televisivi, vedi Barbara d’Urso, dunque una strada è aperta.
Non per mettere i puntini sulle i e per carità abbasso l’elogio al capitale, ma a scopo conoscitivo una domanda ce la dobbiamo fare: è nato prima il corpo o la società patriarcale? E se il patriarcato finisce, il corpo che rimane come sarà? Più libero dai rapporti di potere? Alcuni pensano che il patriarcato si sia impossessato dei nostri corpi nudi e puri (e sul quando l’abbia fatto c’è discussione: nascita dell’agricoltura? Avvento del capitalismo?) – quasi un complotto tessuto contro le anime pulite e pie. E magari auspicano un ritorno all’incorporeo, e magari hanno ragione, verrà il tempo in cui il transumanesimo trionferà, ma per ora si può provare a dissentire sulla questione di cui sopra ribaltando il punto di vista: e se ci fosse prima il corpo e poi la cultura? Le esigenze del corpo possono avere orientano la cultura, e naturalmente è valido anche il discorso inverso, la cultura è il nostro angelo prediletto per rendere migliore il nostro corpo sofferente (schiavo com’è di certi copioni).
Ognuno ha i suoi mentori e riferimenti culturali. A me, per esempio, stancano certi intellettuali molto teorici. Per questo i miei mentori sono certi biologi evoluzionisti e psicologi cognitivi, nonché neuroscienziati. Mi spingono a confrontarmi con domande materiali, anche quelle sull’essere, ma senza Martin Heidegger: quali sono stati i fenomeni biologici e culturali che ci hanno fatto diventare quello che siamo? Da qui poi a cascata, si può provare a rispondere con altri strumenti a domande più ampie: che desideri agitano i nostri corpi? Perché si è strutturata così la società? E infine, cosa spinge un vecchio scrittore e me, noi tutti, a tentare un approccio maldestro e molesto con una ragazza?
Se interrogate un maschio, vi dirà che si ritiene un maschio alfa – e non sono sicuro che la questione sia ristretta agli etero bianchi. Quelli di classe intermedia, poi, quando il maschio alfa si assenta sono pronti a prendere il suo posto. Il maschio alfa è preso a esempio, ovvio, come simbolo di un certo maschilismo d’antan, quelli che comandano, marchiano il territorio, sottomettono con la forza e che fanno gli splendidi in società e vogliono/devono conquistare tutte le donne e tutto il catalogo del male del patriarcato.
Il biologo evoluzionista David P. Barash, nel suo libro “Out of Eden”, ci rende parte del seguente ragionamento: siamo stati per molto tempo poligami, questa è la nostra matrice o il nostro problema, il desiderio costante di più donne: ecco, il maschio alfa con tutto quello che rappresenta viene dalla suddetta matrice e la struttura di potere (patriarcale) viene poi di conseguenza.
Ci sono tre evidenze in proposito. In tutte le specie poligame esiste un marcato dimorfismo sessuale, i maschi sono in media più grandi delle femmine. La ragione è chiara: nell’arena biologica, il maschio compete per le femmine, e più facilmente vince quello più grosso e più forte. Un cervo selvaggio, il capo harem, di solito si accoppia e difende, quattro femmine. Siccome il numero di maschi e femmine è uguale, vuol dire che quattro femmine partoriranno figli dello stesso maschio, e significa inoltre, che ci saranno tre maschi che non otterranno femmine, e saranno tristi e frustrati. Quindi, la selezione sessuale favorisce quei caratteri (imponenza, forza) che garantiscono il successo riproduttivo. Del resto, per i maschi impegnati nella competizione, questo è l’unico modo per trasmettere i propri geni alle generazioni future, e i vincenti si prendono tutto, o quasi (lo diceva la vecchia canzone degli Abba). Alle femmine dell’harem conviene perché si prendono una parte di quel tutto e i conti tornano.
La seconda serie di evidenze riguarda l’uso della violenza o la tendenza all’aggressività fra gli stessi maschi, E diciamo così, l’esistenza di un corredo anatomico che si giustifica solo con l’uso: a che servirebbero, corna, artigli, canini appuntiti se non venissero usati? E infatti, i tori, i cervi i gorilla li usano eccome: non hanno altra scelta se non quella di buttarsi nella mischia, devono aggredire, combattere, vincere, nemmeno possono temere ferite o morte, è il prezzo della riproduzione. Nelle specie poligame i maschi sono molto più violenti delle femmine. Questa differenza resta marcata anche in quelle specie moderatamente poligame. Nel caso contrario, cioè quando si instaurano rapporti monogami la violenza tra maschi e femmine tende a essere uguale.
La terza serie di evidenze è controintuitiva: là dove si instaurano i rapporti poligami le femmine diventano sessualmente mature prime dei maschi. Alle femmine toccano maggiori e pesanti sacrifici, le uova sono più grosse e limitate, c’è bisogno di costruire una placenta, di nutrire il feto e il cucciolo dopo con calorie supplementari. I maschi devono solo disperdere un po’ di seme, dunque è necessario che le femmine arrivino prima a maturità. In un regime competitivo come quello della poligamia – il vincitore prende tutto, o quasi – ai maschi non conviene buttarsi subito nella mischia quando sono piccoli, fragili e con poca esperienza. Per contrasto, in quelle specie di primati che tendono alla monogamia, i maschi e le femmine maturano sessualmente nello stesso periodo (la bertuccia, la scimmia gufo).
Viste e considerate le evidenze di cui sopra, i primatologi e i biologi evoluzionisti cercano di tirare le somme e insomma si chiedono: e noi sapiens? Nella specie sapiens, in media, il dimorfismo tra maschi e femmine si aggira intorno al 20 per cento – è inutile sottolineare che trattiamo la media e non i singoli casi. Comunque (appunto, in media) al lordo del grasso (le donne hanno una percentuale maggiore di grasso perché questo le avvantaggia durante e dopo la gravidanza) gli uomini sono il 40 per cento più pesanti delle donne, hanno il 60 per cento di massa muscolare in più, e attenzione: l’80 per cento in più di muscolatura nelle braccia – ci sono poi altri caratteri che vanno dalla profondità della voce (una caratteristica di molte specie poligame) ad alcuni tratti mascolini, come la mascella.
La maggiore massa muscolare e le dimensioni corporee sono servite nei millenni scorsi a cacciare animali di grossa taglia, a difendere il territorio e le donne dagli attacchi dei predatori e delle popolazioni nemiche. Discorso a parte per i canini: nei maschi della nostra specie non sono più sviluppati di quelli delle donne ma del resto i maschi sapiens hanno avuto altri strumenti per competere. Pochi dubbi sull’aggressività maschile tra i membri della nostra specie. Il tasso di omicidi calcolato in tutti gli stati americani è stabile: tra uomini e donne il rapporto è di 10 a 1. Per meglio specificare questi dati: la differenza tra uomini e donne per crimini piccoli è inesistente, ma la suddetta cresce in maniera esponenziale a mano a mano che consideriamo rapine (alta), aggressioni (altissima) e diventa drammatica negli omicidi.
Chiunque di noi, poi, riguardo alla terza evidenza, sa bene e sulla propria pelle che le femmine della nostra specie maturano prima dei maschietti: è uno standard globale. E non bisogna per forza citare la tribù di cacciatori/raccoglitori Achè del Paraguay, dove le donne diventano sessualmente mature molto prima (i maschi sono piccoli, magri e immaturi rispetto alle coetanee), perché sono oggetto di attenzione da parte degli anziani – ripenso alle scuole medie e vedo donne giganti accanto a me, il loro sguardo mi ignora, mi attraversa e punta direttamente verso i maschi più grandi che (nei miei ricordi) mi sembrano anch’essi dei giganti: da tenere a bada, testa bassa, mai gesti e atteggiamenti minacciosi o parole ambigue.
E infine, ci sono gli studi di biologia molecolare. Analizzando il Dna dei resti fossili si è visto che esiste una bassa variabilità del cromosoma Y (quello trasmesso solo dal padre) e una grande diversità del Dna mitocondriale, quello trasferito solo dalla madre. Quindi, fatti i calcoli vuol dire che alcuni maschi avevano più figli da donne diverse (bassa frequenza di variazione del cromosoma Y, cioè pochi maschi contribuivano al patrimonio genetico della popolazione successiva), e quei maschi godevano così di un vantaggio riproduttivo. Come se un re di un villaggio avesse più figli da più donne, i figli del re saranno più numerosi dei figli dei sudditi, e la variazione del cromosoma Y più bassa (il vincitore prende tutto). Finché, al passaggio dalla poligamia alla monogamia, questo rapporto è cambiato (è più alta la variabilità del cromosoma Y): sempre più uomini, dunque, e non pochi uomini, contribuiscono al pool genetico delle generazioni successive.
Da queste evidenze, il succitato David P. Barash, tra le altre cose, sostiene che il nostro passato poligamo abbia costruito anche la religione monoteista. Dio è nell’immaginario monoteista simile a un gorilla, cioè un maschio alfa nel suo harem. Prendendo come riferimento alcuni passi della Bibbia, e confrontandoli con gli abituali comportamenti del gorilla alfa, ci mostra come le dinamiche siano simili: la figura del Signore risulta sempre protettiva, onnipotente, spaventosa, soggetta ad attacchi d’ira ed esercita costantemente un assoluto controllo sul territorio. E’ proprio il comportamento del nostro antico antenato, il gorilla, grosso e attento a mantenere il suo potere sui maschi del gruppo desiderosi di competere per le donne. Del resto, i maschi sudditi e i devoti lo vedono sempre su un trono, hanno la testa bassa e lo sguardo puntato a terra e cercano sia di tesserne le lodi sia di guadagnare i suoi favori.
Però ricordiamo: questo maschio alfa almeno nelle specie di mammiferi a noi più vicini, non se la passa tanto bene. La taglia grossa, per esempio, porta anche svantaggi, un orangotango maschio è più grosso della femmina di una percentuale che va dal 25 al 50 per cento, ma è lento, pesante, e spesso condannato a un esistenza solitaria, costretto a mangiare frutti acerbi e foglie mature (una specie di junk food) mentre, al contrario, le femmine, più snelle, possono permettersi una dieta più varie e salutare, e anche per questo in media le femmine vivono più dei maschi, in quanto non patiscono appieno i disagi e lo stress della competizione maschio vs maschio. Insomma, i maschi alfa muoiono prima per lo stress, spesso sono ripudiati dal branco qualora vengano sconfitti.
Questa – secondo gli etologi – sarebbe la materia di cui sono fatti i nostri corpi. Anche se la poligamia non è più uno standard, e tantomeno legale in gran parte del mondo, nei nostri corpi abitano ancora quelle dinamiche. Magari non siete d’accordo, e siccome non ci piace ricordare i nostri antenati primati (ma il cervello si è evoluto da lì) preferiamo attribuire tutti gli affanni e gli scompensi al patriarcato. Eppure, nelle relazioni sociali, nelle dinamiche di coppia, durante i party o nelle dirette Instagram questi antichi lasciti dell’evoluzione ancora risuonano in noi.
Lo so! Lo so che adesso sembra che tutte queste evidenze portino alla ribalta la vecchia e falsa massima dell’uomo cacciatore. Il fatto è che la poligamia non ha eliminato la poliandria, l’ha solo resa sotterranea e nascosta: il vero problema del patriarcato è il controllo del desiderio.
Anche se vogliamo escludere i pochi casi ufficiali e istituzionalizzati di poliandria, come tra gli Sherpa dell’Himalaya, gli abitanti delle Isole Marchesi e alcune popolazioni del bacino amazzonico (tra questi in particolare sarebbe diffusa la credenza che il concepimento richiederebbe il concorso di più uomini a cui spetterebbe la “divisione della paternità”), il punto è che non c’è alcuna legge biologica che condanni le donne alla fedeltà, anche la loro fitness aumenta se hanno rapporti con uomini diversi, certo, con dei distinguo dovuti a dinamiche biologiche – parecchi studi e ricerche sul campo mostrano come le donne applichino diverse strategie di riproduttive. In fase di ovulazione, la donna sarebbe più facilmente orientata nella scelta del partner con certi marcati tratti mascolini. In altre mostra attrazione per altre caratteristiche: l’intelligenza, l’umorismo e il senso di responsabilità. Dunque, nella ricerca o sperimentano e fanno esperienza di poliandria (senza molta pubblicità) o indirizzano la scelta verso un uomo che contenga entrambe le caratteristiche: non bisogna mortificare il desiderio femminile, non è monotono, anzi possiede un’ampia gamma di sfumature.
Infatti è problema. L’ampio desiderio femminile fa paura. In alcune culture l’immagine della donna è spesso associata a una natura focosa e insaziabile. Ma se da una parte l’uomo sogna un’amante insaziabile, dall’altra ne è spaventato. Dunque, la paura di non essere all’altezza del desiderio femminile sfocia nella gelosia e nell’ansia del controllo – pensate ad alcune singolari interpretazione del Talmud: i rabbini molti secoli fa, sarebbero stati così persuasi della insaziabilità della donna dall’imporre il divieto del possesso nelle case di animali domestici di sesso maschile. La donna – dicono i biologi – avrebbe quindi rinunciato culturalmente (è questo il tema) a qualcosa che le appartiene per natura. Ma cambiare lo status quo è un attimo, in ultima istanza, dipende dal potere economico e dall’indipendenza della donna, ovvero dal senso di libertà e forza che queste due condizioni portano con sé.
Il fatto è che nel giro di tre decenni, a partire dagli anni Sessanta, perlomeno nelle società democratiche (e ahimè capitalistiche), le donne hanno cominciato a uscire dai ruoli e sono diventate più libere, più curiose, più esposte. Al contrario, i corpi maschili, accusavano i colpi. Le donne si denudavano e gli uomini mostravano fragilità. L’immaginario erotico di quegli anni è stato dimenticato in fretta, ma era esemplificativo. Nel 1960, uscì il film “Dolci inganni”, di Alberto Lattuada. La protagonista (Catherine Spaak) decide di liberarsi della verginità e cerca l’uomo giusto con cui farlo. Film subito censurato “Considerato che nella pellicola si narra come una diciassettenne, scopertasi improvvisamente donna, viene sopraffatta da un incontenibile istinto erotico suscitato da un inverecondo sogno (…) e così in una sola giornata, immola volontariamente e deliberatamente il suo candore concedendosi a un maturo ingegnere…”. Questa era la motivazione del procuratore Spagnuolo che ordinò il sequestro del film.
Anche allora i maschi spaventati giudicavano e controllavano, ma era solo un tentativo di proteggersi dalle nuove ragazze desiderose di liberarsi del fardello dei ruoli ancestrali. All’Eros che le nuove donne esprimevano corrispondeva un senso di Thanatos, maschile (è presente ancora oggi). Non solo la repressione poliziesca spinta dagli apparati (Democrazia cristiana e Partito comunista) ma anche l’intellighenzia: le nuove donne provocavano choc culturali nei maschi. Castrazione, nevrosi, impotenza. Ne “L’infermiera nella corsia dei militari”, Nadia Cassini (che è una falsa infermiera, in realtà vuole fare la cantante e si è infiltrata nell’ospedale militare per rubare dei quadri), scopre il sedere per una puntura e sia il medico (Lino Banfi) sia i tre malati di mente del reparto urlano: scioccati, spaventati dalla bellezza. In “W la foca”, di Nando Cicero, un operaio spia Lory Del Santo mentre si spoglia e il membro dell’operaio – in un delirio onirico – si fa gigantesco, una propaggine smisurata che però finisce per strada e qui viene schiacciata da un rullo compressore. Nel “Merlo maschio”, un mediocre musicista sposato a una donna anch’essa mediocre, scopre che sua moglie tanto mediocre non è, in quanto attira le avance dei maschi (altri medici e infermieri). Sconfiggerà la sua impotenza (ma finirà al manicomio) mostrando agli altri la propria consorte, eccitandosi, cioè, dalla stima che gli altri maschi dimostrano nei confronti della moglie. E’ un maschio e un musicista mediocre però almeno è il marito/proprietario di una donna desiderabile.
Quindi? Prima il patriarcato? Secondo me prima il corpo, il corpo con i suoi desideri (riproduttivi e il corollario noto) maschili e femminili, da cantare e controllare, e sempre destabilizzanti quindi in massima parte da mortificare.
Ma a parte la mia opinione in merito, la domanda è: ora che a breve aboliremo il patriarcato, l’ipotesi Giammei sarà più prossima a noi? Avremo rapporti (magari monogami) e corpi più liberi, o meglio saremo più consapevoli dei nostri desideri, quindi le relazioni saranno più schiette e meno problematiche, così che ogni rapporto sarà un’occasione per rileggere la nostra storia e migliorarla, invece di ripetere in maniera coatta quello che abbiamo subìto o appreso? Oppure alla poligamia subentrerà la poliandria, al patriarcato il matriarcato? E a questi nuovi corpi e conseguenti reti relazionati corrisponderanno nuove strutture di potere? Nuove imposizioni e regole e griglie con le annesse mortificazioni? Non lo sappiamo, cioè io non lo so.
So solo che è arrivata l’estate, i corpi attorno a noi danzano e formano coreografie varie, ognuna risponde a gusti e tendenze e hanno un solo scopo: farci incontrare e nello stesso tempo ingannarci, meglio deliziare il corpo con parate magnifiche per non sentire che nella vita verrà la fatica del corpo stesso.
Tanto prima o poi diremo tutti quello che lo scrittore anziano si è trovato a dire: ora la serata è finita. Allora, quando accadrà, avremo pietà di noi? E dei nostri corpi? Ci servirà la pietà per rileggere le strutture di potere che le relazioni inevitabilmente formano o continueremo ad accusarci l’un con l’altro senza pietà e daremo tutta la colpa al patriarcato?
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