Vi racconto come il 2020 mi ha mandato al tappeto e come mi sono rialzato
Da migliore sceneggiatore italiano a rider che consegna bottiglie di vino in una città in pieno lockdown. In "Rider nella notte", il podcast di Diego Cajelli, c'è tutto: Mike Tyson, Milano, il fallimento e la speranza. E un borsone pieno di sincerità
Esterno notte. Una città deserta e buia, dai grattacieli del centro fino ai bassifondi: serrande abbassate e la sola luce dei lampioni, là dove ce ne sono. Potrebbe essere un hard-boiled. Un protagonista un po' triste, solitario y final, con “un lavoro che in inverno può essere violento”, come confida lui stesso. Uno da noir, appunto, con sulle spalle tutto il peso dei propri sbagli e il naso schiacciato da parecchie porte sbattute in faccia. Che si barcamena in un mestiere che si è bene o male inventato. Uno, insomma, che conosce il rumore che fanno i sogni infranti. Il nostro Philip Marlowe si chiama Diego Cajelli, non fa il detective privato ma è uno dei più grandi sceneggiatori italiani (nel 2008 ha vinto il Gran Guinigi, il premio più importante per chi lavora nei fumetti) e soprattutto non è un eroe di fantasia. “Eroe, poi, non direi proprio”, risponde lui se glielo chiedi. Il suo naso sta benissimo, per altro. E i suoi sogni sono ancora lì, forse appena un po' ammaccati.
Non sarà un eroe, ma di sicuro è uno con un bel fegato. Perché ci vuole parecchio coraggio a raccontarsi come sta facendo lui in un podcast che si chiama Rider nella notte ed è prodotto da Dopcast. È il racconto in prima persona dei suoi tre mesi da rider. Perché, come dice, “il 2020 è stato per tutti come un incontro ravvicinato con Mike Tyson, un Mike Tyson al massimo della forma. Abbiamo provato a saltellare sul ring, cercando di evitare i colpi più duri, ma non sempre ci siamo riusciti”. E Rider nella notte è questo, in fondo: l'anatomia di un knock out. Un montante di Tyson che Diego non è riuscito a schivare e che l'ha mandato al tappeto, di faccia, di brutto. “La pandemia ha dato la botta finale a un percorso autodistruttivo”, ammette Cajelli, che a cinquant'anni si è trovato, per tre mesi, a fare il rider per Winelivery (il fattorino, direbbe Marlowe, “l'omino, il tipo del delivery”, dicono in tanti), a “portare alla gente piccole porzioni di normalità, nella forma di bottiglie di vino consegnate a domicilio”.
Di Rider nella notte, “sono più le parti vere di quelle inventate”, dice l'autore. “Veronica, per esempio, è una figura che uso per raccontare altro, soprattutto il rapporto con la donna con cui sto. I clienti sono quasi tutti veri, cambiano solo i nomi”. Sono veri soprattutto i luoghi: Milano è lo scenario ma non sta sullo sfondo, è un altro protagonista. O per lo meno ha un ruolo a sé, come in un romanzo di Scerbaneco. “È una città che conosco molto bene, quando ho potuto ci ho sempre ambientato le mie storie, da 'Milano criminale' a 'Milano Pulp Stories', dai noir Bonelli a 'Long Wei', dove il protagonista è un giovane immigrato cinese”.
Cajelli non racconta la metropoli che va di moda ma una “città a cipolla” di cui conosce anche le fondamenta, ciò che c'era prima dei grattacieli e delle vetrine. “Ci ritrovi gli strati della vecchia Milano, quella delle trattorie, delle botteghe. O i residui di quella degli anni Ottanta. Solo sopra, in superficie, c'è la città dello shopping e degli aperitivi. Milano cela la sua bellezza”. E ci racconta di piazza Santo Stefano, dove in una piccola chiesa nascosta dagli alberi, San Bernardino alle Ossa, il macabro si fonde con la grazia del rococò e le pareti sono decorate di teschi e ossa umane. O di un palazzo di zona Buenos Aires, lasciato al FAI da una ricca famiglia, con dentro mobili anni Trenta e dipinti di grandi pittori. Nel podcast Cajelli racconta la Milano di notte, quella che frequentava lavorando come cabarettista allo Zelig (ogni buon protagonista di noir deve avere fatto tanti mestieri).
Rider nella notte esce ogni giovedì, siamo alla sesta puntata. È divertente commovente poetico spietato. Soprattutto sincero. E fa venire voglia di abbracciare quell'omone con la barba sale e pepe che guida la sua “motoretta” in una Milano in pieno lockdown. Di aiutarlo a cercare il civico giusto in un casermone labirintico e la risposta giusta per rialzarsi dopo quel destro che il destino e l'orgoglio gli hanno rifilato sul grugno. “In parte una risposta l'ho trovata: è comunicare, ammettere di avere un problema, e accettare il fatto che io rimango io anche nell'insuccesso. Che, se sai di avere fatto tutto il possibile, non è comunque obbligatorio 'spaccare', raggiungere tutti gli obiettivi che ti eri prefissato quando avevi vent'anni. Anche se ti impegni, il successo non ti è dovuto per forza”. E abbandonarsi a questo pensiero può essere rinfrancante. Per capirlo ci vuole tempo e fatica. Per raccontarselo la dovuta lucidità. Ma per raccontarlo agli altri – idealmente a tutta Italia, pubblicando online e con la proprio voce – e per farlo con la schiettezza di Diego ci vuole coraggio.
“Sono in un momento della mia vita nel quale ho deciso di dire la verità. Cerco di non offendere nessuno, ma la dico. E poi non sono un influencer: se ho la pancia mi faccio una foto con la pancia, se ho fatto degli errori ammetto di avere fatto degli errori. Dal mondo del fumetto, per esempio, mi ero allontanato io. E mi ero allontanato male, sbattendo la porta. Non avevo valutato che a volte un 'No' a un progetto è solo quello, non è un rifiuto verso di me”. Perché questo è un podcast che parla di tante cose ma anche – e tanto bene – di fallimento e di speranza. La speranza che a volte sembra scivolare “sulle strade lastricate di promesse non mantenute” e “scolare nei tombini”, la speranza di tante persone rimaste a terra che qualcuno mastica e risputa con arroganza. Quella che, nonostante tutto, illumina le notti di una città che sogna, mentre una "motoretta" carica di bottiglie sfreccia via verso la sua prossima consegna.
Politicamente corretto e panettone
L'immancabile ritorno di “Una poltrona per due” risveglia i wokisti indignati
Una luce dietro il rischio