Il potere fragile delle folle
Il protagonismo delle piazze rischia di essere neutralizzato dal ricorso a strumenti di repressione digitale, sempre più usati dai regimi autoritari per mantenere il potere. Un esempio su tutti? La Cina
Pubblichiamo un lungo estratto del saggio di Damiano Palano “L’era delle piazze. Il potere fragile delle nuove folle”, presente nell’ultimo numero del bimestrale Vita e Pensiero (3/2021). L’autore è direttore del dipartimento di Scienze Politiche all’Università Cattolica di Milano
Pochi mesi prima di morire, nel marzo 1895, Friedrich Engels scrisse una densa introduzione al volumetto sulle Lotte di classe in Francia, in cui Marx aveva ricostruito gli eventi del 1848. Tornando a rileggere quelle pagine, Engels non esitava a riconoscere come l’intera interpretazione dell’amico scomparso fosse stata viziata da una serie di errori fatali. “La storia”, ammetteva Engels, “ha dato torto anche a noi”, “ha rivelato che la nostra concezione di allora era un’illusione”. Le diverse crisi dell’economia capitalistica non avevano provocato il tanto atteso “crollo” generale, e neanche l’impoverimento crescente delle masse operaie. Ma, soprattutto, alcune trasformazioni tecniche avevano radicalmente modificato le modalità della lotta politica. “Se le grandi città sono diventate notevolmente più grandi”, scriveva, “gli eserciti si sono accresciuti ancora di più”, e “l’armamento di questa massa di soldati è diventato incomparabilmente più efficace”. Le barricate che Marx aveva celebrato in tante occasioni non potevano dunque più rappresentare un esempio cui guardare. La direzione era piuttosto indicata da quanto era avvenuto in Germania, dove il partito socialdemocratico aveva iniziato infatti a partecipare alle elezioni, conquistando consensi sempre più ampi e avviandosi verso quella che appariva come una inevitabile e pacifica presa del potere. Nel corso del Novecento, le barricate non sono del tutto scomparse dal repertorio dei movimenti di protesta, e talvolta hanno fatto una fugace ricomparsa, come ci ricorda puntualmente l’iconografia del “maggio ’68”. Ma, come Engels aveva intuito, le vere protagoniste del XX secolo sono state proprio le “masse”, organizzate dai partiti nelle democrazie competitive, o mobilitate “dall’alto” nei regimi autoritari e totalitari. E a insidiarne la centralità sono stati semmai il “pubblico” dei lettori di giornali e, più tardi, le platee dello spettacolo televisivo. Negli ultimi decenni – con sempre maggiore intensità – le cose sembrano però essere almeno in parte cambiate, perché la “politica della strada” pare aver riconquistato un ruolo. Non più monopolizzate dalle manifestazioni di regime o occupate dalle bandiere di partito, le piazze sono diventate per molti versi il luogo in cui aggregare l’opposizione al “Palazzo”, l’arena in cui esibire una protesta non violenta, pacifica, lontana tanto dall’iconografa delle barricate ottocentesche, quanto dalle manifestazioni del “secolo breve”. Molti hanno riconosciuto nelle nuove folle una richiesta di partecipazione diretta alla vita politica, amplificata dalle potenzialità delle nuove tecnologie. E quei rapporti di forza che secondo Engels condannavano all’obsolescenza l’azione delle folle urbane sembrerebbero dunque essersi nuovamente rovesciati. Ma il ritorno delle piazze, che con alterne vicende ha segnato l’ultimo trentennio, potrebbe essere un fenomeno temporaneo, e il potere della loro protesta rischia di rivelarsi nel prossimo futuro nuovamente molto fragile.
Nelle democrazie consolidate, le piazze hanno mostrato, nel corso dell’ultimo decennio, il volto degli indignados spagnoli, quello di Occupy Wall Street e di Black Lives Matter, quello indecifrabile dei Gilet gialli in Francia e anche quello inquietante dell’assalto a Capitol Hill del 6 gennaio 2021. Ma è stato soprattutto nell’Europa orientale, in Nordafrica e in America latina che le piazze sono state protagoniste importanti delle dinamiche politiche, nonostante solo in alcuni casi abbiano conquistato la meta che si prefiggevano. Le rivoluzioni “colorate” in Georgia e Ucraina, all’inizio del nuovo secolo, videro infatti scendere in piazza migliaia di cittadini che, ricorrendo quasi sempre solo alla protesta pacifica, richiesero con successo elezioni regolari e le dimissioni di leader giudicati corrotti. La vittoria ottenuta dai manifestanti contribuì a diffondere in alcuni paesi circostanti analoghe modalità di protesta, e anche più di recente prolungate mobilitazioni contro la corruzione della classe politica hanno avuto come teatro la Moldova (2015), la Macedonia (2016), l’Armenia (2018) e, durante la pandemia, la Bielorussia di Aljaksandr Lukašeėnka, oltre che la stessa Russia, in occasione delle proteste contro il trattamento riservato ad Aleksej Naval’nyj. Dieci anni fa, al principio della “Primavera araba”, i presidenti al potere in Egitto e Tunisia (Mubarak e Ben Ali) furono deposti proprio in seguito alla pressione popolare. In Libia, Siria e Yemen le proteste assunsero invece quasi immediatamente un profilo violento, che aprì una lunga stagione di conflitti. Ma anche recentemente in altri paesi nordafricani e mediorientali – Marocco, Algeria, Giordania, Libano e Iraq – la piazza è tornata a farsi sentire per pro- testare contro la corruzione e gli effetti della crisi. Una dinamica in gran parte differente ha riguardato invece le piazze latinoamericane. Le mobilitazioni dei piqueteros argentini, diventate fenomeno di massa al momento del tracollo dell’economia del paese, nel dicembre 2001, fornirono infatti la prima esemplificazione di una mobilitazione contro le classi dirigenti, al grido “Que se vayan todos!”, poi giunta anche in Europa. Le piazze latinoamericane sono spesso tornate a mobilitarsi contro le politiche di austerità, per esem- pio nel 2019, in Argentina contro il presidente Mauricio Macri, in Ecuador contro Lenín Moreno, in Perù contro Martín Vizcarra e in Cile contro Sebastián Piñera, per i tagli alla spesa pubblica e per il rincaro delle tariffe dei mezzi pubblici. Di segno ben diverso sono state invece le mobilitazioni che in Venezuela e Bolivia si sono indirizzate sia contro i rispettivi governi, accusati di aver manipolato le elezioni (oltre che della violazione delle garanzie democratiche), sia a loro difesa, con il ricorso alla violenza da parte di entrambi gli schieramenti. E questo elenco delle mobilitazioni contro i “Palazzi” della politica, che offre solo una rassegna incompleta dei volti che le piazze hanno mostrato quasi in ogni area del mondo, potrebbe continuare ulteriormente, evocando per esempio le mobilitazioni delle “camicie rosse” thailandesi nel 2010 o le proteste degli studenti di Hong Kong contro il governo di Pechino.
Sebbene molte delle speranze accese da alcuni movimenti siano state presto tradite (e tra queste soprattutto quelle relative alla democratizzazione del Nordafrica e del Medioriente), sarebbe sbagliato ritenere che il potere delle piazze sia illusorio. Almeno per ciò che concerne le sorti dei regimi non democratici, la loro azione è stata tutt’altro che irrilevante. Secondo molte indagini, la principale insidia da cui devono guardarsi oggi gli autocrati è infatti rappresentata pro-prio dalle dimostrazioni di massa organizzate dagli oppositori. Con-frontando le dinamiche di 280 transizioni di regime verificatesi tra il 1946 e il 2010, l’équipe di ricercatori del Mass Mobilization Project ha rilevato come durante la lunga stagione della Guerra fredda il colpo di Stato fosse il modo più comune con cui si realizzava l’uscita di scena degli autocrati (nel 48,6 per cento dei casi). A partire dal 1989 i golpe tradizionali sono invece diventati molto meno frequenti (tanto da scendere a circa il 13 per cento dei casi rispetto al numero complessivo dei mutamenti di regime) (B. Geddes-J. Wright-E. Frantz, Autocratic Breakdown and Regime Transitions: A New Data Set, in “Perspective on Politics”, 2014, 2, pp. 313-331). I manifestanti sono invece riusciti a spodestare il 23 per cento dei 44 regimi autocratici caduti nel periodo 2000-2017, mentre altri 19 hanno perso il potere a seguito di elezioni.
Le scienze sociali si sono interrogate sui motivi del ritorno in scena delle piazze, oltre che sulle variabili in grado di spiegare il loro successo o il loro fallimento. Alcuni studiosi hanno evocato l’“effetto contagio”, che – a partire soprattutto dal (parziale) successo delle “rivoluzioni colorate” – avrebbe spinto gli oppositori dei regimi autoritari a ricorrere a grandi dimostrazioni pacifiche. Riflettendo specificamente sull’Europa orientale, Lucian Way ha invece sostenuto che le cause principali delle origini e del successo delle mobilitazioni vadano rinvenute nella debolezza del partito al potere, nell’assenza di intervento statale nell’economia e nella limitata capacità del regime di controllare i gruppi di opposizione. Diversi osservatori hanno inoltre attirato l’attenzione sul ruolo giocato dalle nuove tecnologie, che, rispetto al passato, renderebbero molto più agevole un’azione diretta da parte dei cittadini. Ma, per quanto colgano un punto importante, le spiegazioni che si concentrano sulla dimensione tecnologica, e dunque sul ruolo ricoperto dai social media nella mobilitazione dei cittadini, rischiano di sottovalutare l’importanza del contesto in cui le proteste nascono e si sviluppano.
Probabilmente, uno dei motivi più rilevanti che chiariscono perché i raduni non violenti di massa siano diventati uno strumento di pressione tanto utilizzato dalle opposizioni va in effetti ricercato nel processo che verso la fine degli anni Ottanta – e dunque ben prima che le mobilitazioni potessero contare su internet e sui social media – modificò il contesto internazionale. Mentre si sgretolava il blocco sovietico, anche la residua legittimazione internazionale su cui potevano contare molte dittature incominciò rapidamente a indebolirsi. Nell’arco di pochi anni, i regimi socialisti si trovarono privi del sostegno politico, economico e militare offerto fino a quel momento da Mosca, mentre le dittature che si erano presentate come un argine all’avanzata comunista videro rapidamente svanire l’appoggio su cui avevano potuto contare, trovandosi esposte alle pressioni sempre più insistenti di un mondo travolto dall’impetuosa “terza ondata” di democratizzazione. Sopravvalutando la loro popolarità e la loro capacità di controllare il dissenso, molti dittatori tentarono di adeguarsi al nuovo corso, indicendo elezioni che ritenevano di poter agevolmente manipolare. Ma molto spesso le cose si rivelarono più complicate, e proprio allora – spesso sull’onda della denuncia dei brogli perpetrati nel corso delle consultazioni elettorali – iniziò a emergere il sorprendente potere delle folle pacifiche, radunate in piazza per invocare la restituzione al popolo dello scettro del potere. Nella genealogia del ritorno delle piazze sulla scena globale, si può d’altronde riconoscere la prima “rivoluzione di velluto” nella mobilitazione contro il presidente Ferdinand Marcos nelle Filippine. La regolarità delle elezioni indette da Marcos per confermare la propria popolarità fu contestata da un fronte composito di oppositori interni, oltre che dagli osservatori internazionali. E la mobilitazione non vio- lenta contro il regime riuscì a ottenere la deposizione del dittatore e l’avvio di una transizione pacifica alla democrazia. Il caso filippino non rimase isolato, e fu ben presto seguito dalle transizioni democratiche avviate nei mesi successivi in Corea del sud, a Taiwan, in Thailandia, ma anche in Pakistan, Bangladesh, Nepal, Cile, Paraguay e Panama, oltre che naturalmente nei Paesi dell’Est europeo. Sull’onda di quanto stava avvenendo nella regione, anche migliaia di studenti cinesi affluirono a piazza Tienanmen per richiedere libertà di espressione e riforme democratiche, iniziando uno sciopero della fame di massa che si diffuse in diverse città del Paese. Come sappiamo, le cose in Cina andarono molto diversamente, con il regime che schiacciò le proteste con un’inflessibile repressione. Pechino avrebbe scontato a lungo le conseguenze di quella decisione, che condannò la Repubblica Popo- lare a un decennio di isolamento internazionale, tanto che da allora lo spettro di Tienanmen non ha probabilmente mai cessato di aleggiare sulla Cina. I vertici del regime – persino dinanzi alle dimostrazioni degli studenti secessionisti di Hong Kong – hanno così ancora oggi ben presente gli enormi costi che comporterebbe il ricorso a una re- pressione tanto clamorosa dei dissensi interni. E quella stessa lezione è stata d’altronde appresa anche da molti regimi non democratici, che – senza poter contare sulle risorse economiche e militari di Pechino, o su qualche rilevanza geopolitica – hanno di fatto rinunciato a ricorrere alle armi per reprimere la voce delle piazze, finendo talvolta per avviare pacificamente delle transizioni democratiche.
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