il foglio del weekend
Addio al trash
Dalla televisione ai social, dalla moda al calcio. Finalmente l’Italia ha ritrovato un po’ di senso della misura. Effetti della pandemia
Lo spirito del tempo attuale potrebbe essere sintetizzato nella battuta del giovane ingegnere italiano attaccato dalla tifoseria inglese fuori dallo stadio di Wembley dopo la vittoria dell’Italia ai Campionati europei di calcio, che al cronista costernato di vederlo imbarcarsi sull’aereo per Roma con un labbro spaccato, un livido sullo zigomo e varie escoriazioni, ha risposto con quella vecchia, geniale battuta di Mario Brega nel film “Borotalco” di Carlo Verdone: “Cosa è successo? Niente, due de’ passaggio”.
Giusto due estati fa un suo omologo, o forse lui stesso, avrebbero intonato la giaculatoria della rissa, gli amici di trasferta si sarebbero accalcati vocianti e molesti davanti allo stesso identico taccuino di Fabrizio Roncone del Corriere della Sera cercando di guidarne la penna, mentre il paese tutto, indignato, avrebbe meditato vendetta occupando gli scranni dei talk show del pomeriggio, categoria principe del vittimismo spettacolarizzato, per piangersi addosso e alzare il pugno al cielo come Rigoletto. La presentazione dei palinsesti autunnali ha reso evidente quanto e in quale misura i trash show del pomeriggio che dominavano il piccolo schermo fino all’altro ieri siano stati ridimensionati. I programmi serali del pianto e della beceraggine spacciata per autenticità popolare, ‘a ggente vera, le Angela da Mondello che non ce n’è Coviddi, sono stati annullati tout court: “Quel tipo di infotainment non ha più molto senso”, sintetizzava il presidente di Mediaset Piersilvio Berlusconi ai cronisti alla presentazione dei palinsesti autunnali, pochi giorni fa, dopo aver azzerato i due terzi dei programmi guidati di Carmela d’Urso in arte Barbara, in derivazione semantica di conio Dagospia “barbarie d’Urso”.
Il clima è cambiato a tal punto che sembriamo personaggi di quel film sessantottino di Richard Attembourough e perdonate la seconda citazione cinematografica in dieci righe: ti fa male? Solo quando rido. Massì dai, erano solo tre calci e un cazzottone. I giornali dell’ultima settimana, poi, eccoli stagliarsi come il modello di giornalismo anglosassone della leggenda: mai una riga antipatica sull’Inghilterra; semmai una prosa sospesa e stupita, di quello stupore condiscendente che sfoggiano i nobili dei romanzi d’appendice, ohibò, poffarbacco; mai un commento capace di soffiare sul fuoco dell’arroganza altrui, cioè dei commentatori d’Oltremanica, quelli del giornalismo anglosassone appunto, che invece promettevano di cucinarci come piatti di amatriciana sbagliando però il taglio di pasta e la ricetta (dearest, la velatura di “parmesan” e il prezzemolo proprio no). Ci è molto piaciuto sentirci superiori al principe William che lascia lo stadio di Wembley in apparenza senza aver nemmeno salutato il presidente Sergio Mattarella, un gesto che ci è parso inconcepibile se non accogliendo finalmente la realtà della persona oltre la narrazione che noi, malati della stessa monarchia che abbiamo mandato a casa settant’anni fa, ne facciamo da anni, e cioè che la regalità e l’eleganza di modi non sono dati acquisiti o trasmessi per linea diretta, quattro quarti inquartati di eleganza prodotti per via genetica, ma il frutto di un lavoro di controllo che quel ragazzone prematuramente calvo non ha saputo compiere su se stesso, a dispetto dei modi della nonna e della moglie ambiziosa di cui i nostri mensili femminili in crisi nera si ostinano a pubblicare tutti i giorni online i commenti sulle mise, e quanti cappottini e cappellini e se siano già stati indossati e oh quanto è brava sul riciclo. Una qualunque coppietta senza stile, e non aggiungiamo altro perché vorremmo continuare a mantenere il nostro, ora che l’abbiamo reso palese al mondo.
“These are the most badly behaved royals, big and small”, scriveva il Daily Beast qualche tempo fa, e ancora non riusciamo a credere quanto avesse ragione ma soprattutto non vogliamo farlo, non ci abbassiamo, perché ormai è chiaro che la gara all’ultimo stadio del trash e della mala creanza sia finita e che siano rimasti solo gli ultimi corridori sul fondo della pista, col fiatone e la canotta sudata di sghimbescio. Non sarà un caso se l’altra settimana l’ultimo baluardo del guardonismo televisivo d’accatto, “Temptation Island”, se la sia dovuta vedere in termini di share con “Techetechetè” e la successiva replica di “Carràmba”, programma pluridecennale, in onore della scomparsa di Raffaella Carrà, una commoner che se n’è andata in silenzio come una regina e, si scopre adesso, donando una parte non irrilevante della sua eredità a un ente benefico. Ecco. Dagli eventi delle ultime settimane togliete magari la faccenda del bus scoperto della Nazionale di rientro con la coppa in processione fra il Quirinale e Palazzo Chigi e di chi l’abbia autorizzato ma, in generale, essersi scoperti cittadini di un paese provvisto di senso della misura e del fair play, addirittura di senso del limite dopo decenni di illimitatezza, è stata una bellissima sorpresa.
Perfino i social, da qualche giorno sono tutti un prego-avanti-faccia pure-ma prima lei-e-comunque discutiamone-da persone-civili addirittura sul ddl Zan, a dispetto delle sparate parlamentari e delle dirette social scombiccherate e ignorantissime sul tema di Federico Lucia in arte Fedez, anche lui in cerca di uno status adeguato a quel che lo zeitgeist richiede a dispetto di un passato non proprio specchiatissimo sul tema dell’omotransfobia, o forse proprio per quello. La sua canzoncina per l’estate, “Mille”, sembra ricalcata sul modello della saga “Sapore di sale” vanziniana che continua a fare audience a ogni passaggio televisivo perché in fondo è quel genere di personaggi lì che in cuor nostro abbiamo sempre voluto essere: borghesi perbene, un filo vivaci, eleganti comme il faut. Sarà per il timore di essere bannati da Facebook, sarà perché un filo di ideologia politicamente corretta e relativi addentellati lessicali ci è entrata sottopelle, ma insomma da qualche tempo abbiamo smesso di bloccare o bannare gente sconosciuta a cui avevamo dato l’amicizia perché sembrava condividerne un centinaio delle nostre vere ma che poi, al primo dibattito, rivelava il proprio lato Barbablù.
La piazza social-mediatica non si è fatta agorà ma ci sembra meno lontana di un tempo da quel luogo di libero scambio di idee di cui vagheggiamo dai tempi del liceo. Al termine di quell’orgia di egoismo pago-pretendo in cui viviamo immersi dai tempi della Milano da bere, non a caso in serie difficoltà di immagine, stiamo lentamente riscoprendo che stare entro i limiti non significa essere prigionieri, ma concedere un po’ di libertà a tutti. E’ lo stesso principio su cui si basa l’idea del presidente francese Emmanuel Macron di imporre alcune restrizioni ai non vaccinati per non dover estendere nuove restrizioni a tutti, cioè il vecchio detto sui confini della libertà di ciascuno in applicazione pandemica o, per dirla con Merleau Ponty, la “percezione dell’altro”, l’uomo cosciente di sé specchiato nel tutto. In generale, non aspiriamo a tanto, e nemmeno sembriamo a caccia di nuove ideologie. Ideologia l’è morta come diceva quel tale, e per il momento abbiamo scoperto di riuscire a cavarcela egregiamente con la semplice buona educazione e, appunto, un po’ di senso della misura. Da baby boomer, pur di ultimissima fascia anagrafica, non siamo mai stati grandi estimatori del filosofo della decrescita felice, Serge Latouche, ma dobbiamo ammettere che nella sua ultima prolusione ai “Dialoghi Sull’Uomo di Pistoia”, lo scorso settembre, aveva visto giusto quando ipotizzava non solo la comparsa di “nuovi limiti invalicabili” che conoscevamo già come il cambiamento climatico, le nuove pandemie, l’esaurimento delle risorse naturali rinnovabili e altri quotidiani orrori, ma anche l’assoluta necessità di darsi limiti propri per evitare che tutte le “forme di dismisura”, mescolandosi, si intrecciassero e si rafforzassero, come i mostri proteiformi dei film e dei romanzi distopici che, guarda caso, abbiamo ripreso a leggere con apprensione. “Per costruire un futuro umano è necessario scongiurare la mancanza di limiti, ritrovare e condividere il senso della misura”, diceva Latouche un anno fa, quando non iniziavamo nemmeno a intuire la possibile fine della pandemia in corso. Dieci mesi dopo, iniziamo a vedere le prime, infinitesimali applicazioni di questo senso della misura, ovvero dell’eleganza che è appunto limite e sottrazione, nel mondo sensibile e in quella versione spiccia dell’empirismo che sono i media quotidiani e, sul fronte dell’industria e dell’artigianato, della moda, espressione sensibile dell’umano ed estetica del sé sociale. A Roma, più che a Milano dove l’estetica è ancora e sempre un po’ commendatizia dunque aspirazionale, fioriscono le sartorie di ragazze neolaureate che hanno imparato a cucire sulla Singer a ribalta della nonna durante la pandemia e che adesso vendono modelli semplicissimi, i soli che possano permettersi di realizzare da sole, utilizzando stoffa di recupero, di solito bellissima, e molti elastici in vita. Ne abbiamo scovate due, deliziose, una alle spalle di piazza Navona e una a pochi metri dal nuovo investimento immobiliare di Alessandro Michele, direttore creativo di Gucci, in zona san Luigi dei Francesi, fra restauratori e collegi apostolici. Sul pavimento della micro-boutique che ha ridipinto da sola una di queste ragazze, laureata alla Bocconi ma di quel genere di romanità che i brand morirebbero dalla voglia di trasformare in influencer, ha appoggiato i dipinti davvero molto interessanti del nonno. Vende? Eccome, a ragazzine suppergiù della sua stessa età e della sua stessa eleganza nonchalante, cioè a quelle ventenni che non vogliono più trovarsi a ballare al ritmo imposto dai mega brand e che infatti, a loro volta e ad eccezione dei soliti Dolce&Gabbana che resteranno massimalisti e tutti un cristallo anche quando il mondo sarà tornato al saio francescano, hanno iniziato a giocare di rigore e sottrazione. Meno orpelli, meno decorazioni che poi sono impossibili da riciclare. Quasi ovunque si lavora solo su volumi e tagli.
Per le sfilate di Parigi, concluse la scorsa settimana, Balenciaga ha presentato la prima sfilata couture dal 1968, l’anno in cui il fondatore Cristobal ritenne arrivato il momento di chiudere e alla notizia Mona von Bismarck si chiuse nella sua camera al Fortino di Capri a piangere per tre giorni mentre Diana Vreeland la implorava di riprendersi (anche allora, si stava uscendo dal massimalismo della Ricostruzione); il successore attuale di Balenciaga, il georgiano Demna Gvasalia, ha mandato in scena una collezione senza un solo volume di troppo, talmente lontana dall’abbigliamento sportivo di proporzioni volutamente sbagliate e dall’approccio anti-estetico che l’ha caratterizzato negli ultimi cinque anni da essersi convinto a rilasciare qualche intervista di spiega sulla sua ri-scoperta della manualità essenziale: dalle felpe oversize e le scarpe-calzino alla replica invecchiata ad arte dei ricami dei capi di Jackie Kennedy, dopotutto, è un bel salto, e l’abilità è stato capire che andasse fatto ora, quando anche i rapper si sono stancati di vestire da rapper e sotto le sneaker chiedono tessuti sartoriali in luogo dei nylon. Giorgio Armani non ha dovuto esagerare in sottrazione e senso della misura perché le ha sempre avute e il tempo è tornato a dargli ragione; però, ha lavorato sulla luce e la leggerezza dei tessuti, e come sempre tre giorni prima di uscire in passerella ha tolto quel che gli sembrava di troppo, presumiamo parecchio. Vertumno, il dio elegante, simbolo del mutamento e soprattutto della metamorfosi, singolare e plurale, maschile e femminile, è tornato a farci visita. Senso della misura e dell’opportuno per tutti. Dicono infatti le cronache che Angela da Mondello si sia vaccinata.
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